24 novembre 2020 11:50

Da alcuni anni il mese di novembre è ricco di eventi relativi alla questione del Sahara Occidentale. Il 6 novembre 1975 è la data della Marcia verde, che segna l’inizio del conflitto: la Spagna lascia la sua colonia nel Sahara e il re marocchino Hassan II organizza una marcia di 350mila uomini che brandiscono il Corano e la bandiera marocchina per riconquistare quelle che la monarchia nordafricana definisce le “province del sud”.

Sempre nel mese di novembre, o più precisamente il 31 ottobre, il Consiglio di sicurezza dell’Onu vota per il prolungamento della missione delle Nazioni Unite che deve vigilare su un referendum nel Sahara Occidentale (Minurso). Obiettivo principale della missione è appunto organizzare una consultazione di autodeterminazione per consentire alle popolazioni della regione di pronunciarsi sulla sovranità di quel territorio che l’Onu, incaricata di risolvere la questione, considera un territorio non autonomo.

Infine, l’8 novembre è la data in cui si commemorano i fatti di Gdeim Izik, gli scontri avvenuti nel 2012 in un accampamento a una decina di chilometri dal Laâyoue tra manifestanti sahrawi e forze dell’ordine marocchine. Gli scontri hanno provocato la morte di tredici persone e il ferimento di molte altre, e hanno portato a pesanti condanne tra i sahrawi che ancora oggi stanno scontando la loro pena.

Due concezioni del diritto e della storia
Questi anniversari sono un’occasione per far uscire il conflitto dal suo immobilismo. Da 45 anni due contendenti si affrontano per il recupero di quella parte del Sahara che un tempo era colonia spagnola. Si contrappongono due concezioni del diritto e della storia: da un lato il Marocco, che rivendica i suoi “diritti storici” per sostenere il mantenimento delle frontiere in vigore prima della decolonizzazione, dall’altro un nazionalismo sahrawi portato avanti dal Fronte Polisario che fonda le sue rivendicazioni sul diritto all’autodeterminazione dei popoli.

All’inizio degli anni ottanta Hassan II decide di trasformare la guerriglia che offriva dei vantaggi al Fronte Polisario in una guerra di usura, per sfiancare da un punto di vista militare un avversario la cui caratteristica essenziale era la mobilità. Fa costruire sei muri di difesa che hanno privato il conflitto della sua dinamica militare. Dal 1991 la risoluzione del conflitto è stata affidata alle Nazioni Unite ed è stato firmato un cessate il fuoco che ha messo fine alla guerra sul terreno. I negoziati però sono a un punto morto, l’Onu non riesce a organizzare un referendum e i due attori hanno optato per conclusioni diverse: autodeterminazione per il Fronte Polisario e autonomia per il Marocco, posizioni inconciliabili, tanto più che i due contendenti continuano a muoversi in una logica di guerra e pretendono una vittoria totale sull’avversario.

Gli anni sono passati e il conflitto si è impantanato sotto gli occhi dell’Onu, che ha dato di sé l’immagine di un’istituzione impotente, capace solo di rinnovare ogni anno il mandato della Minurso. Niente sembrava poter fare uscire il conflitto dal suo torpore, mentre il Marocco continuava ad attivarsi con azioni di persuasione sulla comunità internazionale per indurla a riconoscere che il Sahara Occidentale, di cui controlla l’80 per cento del territorio, compresa la sua popolazione e le sue risorse, è marocchino.

Verso la ripresa della guerra?
Marginalizzato e sempre più isolato da quando il tutore algerino è alle prese con i suoi problemi interni, il Fronte Polisario decide di spezzare questo immobilismo ormai intollerabile chiedendo conto alla comunità internazionale delle azioni compiute dal Marocco in questo territorio. Dal 20 ottobre blocca circa 200 camionisti nel punto di passaggio di Guerguerat, una zona cuscinetto nel sudovest del Sahara, al confine con la Mauritania. Il muro costruito dal Marocco negli anni ottanta è affiancato su entrambi i lati da una zona cuscinetto larga cinque chilometri, affidata alla responsabilità dei caschi blu della Minurso. I marocchini hanno costruito in quest’area una strada ritenuta essenziale per i loro commerci con l’Africa subsahariana. Guerguerat è diventata così un punto di tensione nel confitto sahariano assopito.

Il 9 novembre il segretario generale del Fronte Polisario, Brahim Ghali, ha avvertito che “l’ingresso di qualsiasi elemento militare, di sicurezza o civile marocchino a Guerguerat sarebbe stato considerato un’aggressione palese a cui il fronte sahrawi avrebbe risposto con determinazione, per legittima difesa e a protezione della sua sovranità nazionale”. Ha poi fatto appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché “si assuma le sue responsabilità” e ha accusato la Francia di limitare il ruolo della Minurso a un mero controllo del cessate il fuoco.

In vent’anni di regno il Marocco di Mohamed VI si è forgiato l’immagine di uno dei migliori alleati dell’occidente nel mondo arabo

La reazione alle sue affermazioni minacciose non si è fatta attendere. Il 13 novembre il Marocco ha lanciato un’operazione militare nella zona in risposta a quelle che considera “provocazioni” del Fronte Polisario nella regione di Guerguerat. Questo ritorno all’offensiva militare da parte del Marocco era del tutto inatteso.

Con la costruzione dei muri di difesa l’opzione militare sembrava scartata; oggi si spiega con la politica sahariana del re Mohamed VI, che non è affatto incline a proseguire i metodi adottati dal padre Hassan II e che ha scelto un momento a suo avviso opportuno sul piano regionale e internazionale per colpire militarmente il nemico.

Da circa quattro anni il discorso ricorrente sull’autonomia del Sahara in un Marocco sovrano sembra essere stato accantonato dalla monarchia marocchina. Gli osservatori si chiedevano se Mohamed VI non puntasse a un ritorno all’uso della forza per porre fine al conflitto, una vera e propria palla al piede per il Marocco. Sul piano diplomatico Rabat, che ha stabilito un legame tra la sua politica estera e il riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara da parte dei suoi partner, ha avuto indubbiamente la sensazione di essere riuscito a convincere i suoi alleati a sostenerlo nel “recupero” del Sahara Occidentale.

In vent’anni di regno il Marocco di Mohamed VI si è forgiato l’immagine di uno dei migliori alleati dell’occidente nel mondo arabo. La sua collaborazione è ritenuta preziosa, poiché sorveglia lo stretto di Gibilterra, autorizza il sorvolo del suo territorio in caso di guerra e gioca un ruolo importante nella gestione dei flussi migratori, impedendo agli immigrati africani di arrivare in Europa. Anche l’Unione europea si appoggia a questo paese del sud del Mediterraneo, ritenuto un alleato stabile e credibile, il paese del potere persuasivo che contribuisce in modo efficace alla lotta contro il jihadismo. Questi vantaggi hanno un costo, e gli stati occidentali mostrano scarso interesse alle violazioni giuridiche commesse dal Marocco nel Sahara Occidentale e alla sua gestione dei diritti umani.

Un’Algeria assorbita dai suoi problemi interni
Rafforzato nel suo ruolo di paese ineludibile sulla scena internazionale, il Marocco – che ha solo due nemici, l’Algeria e l’Iran – avrà probabilmente ritenuto che il percorso per giungere a una soluzione del conflitto basata sul diritto internazionale sarebbe stato lungo e rischioso, in un momento in cui, sul versante opposto, il Fronte Polisario gode di molto meno sostegno rispetto al passato (nel 1990 erano 79 i paesi che riconoscevano la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, oggi sono meno di 30), e il suo principale tutore, ossia l’Algeria, è assorbita da difficoltà interne e dal 2019 l’esercito che ha ancora in mano le redini del potere è molto contestato dalla popolazione. Oltretutto il nazionalismo algerino non si definisce più in relazione al sostegno ai sahrawi nella loro lotta per l’autodeterminazione.

Anche i cambiamenti osservati sulla scena internazionale lasciano ampio margine di manovra al Marocco. Gli Stati Uniti vivono un periodo particolare, tra due presidenti, e tutto il pianeta è preoccupato per la crisi del covid-19. In questo nuovo contesto, Mohamed VI sa di poter contare sugli amici che governano nei paesi del Golfo. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno forse aperto un consolato a Laâyoune, in cambio del beneplacito dato dalla monarchia marocchina all’avvio di relazioni diplomatiche con Israele?

La sicurezza del Marocco si fonda anche sui suoi armamenti e sull’addestramento delle sue truppe. Le Forze armate reali (Far) si addestrano regolarmente con i corpi dei marine americani, in particolare con African lion, un’esercitazione di alto profilo finalizzata a mettere in campo un attacco contro l’avversario. Il re, che è anche il capo delle forze armate, può decidere nel giro di poco tempo di lanciare un attacco o di entrare in guerra, al contrario di quanto accade nel Fronte Polisario, che dipende dall’esecutivo algerino per le decisioni militari e l’uso delle armi.

Il Marocco, che negli ultimi anni si è rifornito di armamenti, oggi dispone di un arsenale tra i più importanti dell’Africa. Nel 2018 ha acquistato aerei da combattimento ed elicotteri d’attacco, che si aggiungono ai missili a medio raggio, ai carri armati e ai veicoli da combattimento a sua disposizione, oltre a un sistema di radar efficienti. Le minacce di riprendere le armi lanciate con la vecchia retorica dal Fronte Polisario non devono aver colpito più di tanto il Marocco se ha deciso di passare all’uso della forza e di calpestare il diritto internazionale, visto che dal 1975 nessuno, nemmeno le Nazioni Unite, gli ha più chiesto conto delle sue azioni.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su Orient XXI.

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