27 aprile 2020 16:18

In piena emergenza da covid-19 è ancora più essenziale garantire cure palliative sicure ed efficaci, compresa l’assistenza di fine vita. Le difficoltà però sono molte, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito dove i servizi sanitari sono più deboli, commenta in un editoriale The Lancet.

La rivista medica sottolinea che purtroppo le cure palliative non compaiono nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sulla gestione dei servizi sanitari essenziali durante la pandemia, “quando invece dovrebbero far parte dei piani nazionali e internazionali”. Bisognerebbe, per esempio, garantire l’accesso ai farmaci per lenire i sintomi e il dolore (oppioidi), assicurare la fornitura di dispositivi di protezione e favorire un maggior utilizzo della telemedicina e delle videochiamate, che possono permettere ai malati terminali di sentire la “vicinanza” dei familiari. Inoltre bisognerebbe investire sulla formazione del personale sanitario perché sia in grado di gestire il fine vita dei pazienti.

In Italia la questione è stata sollevata di recente dalla Società italiana di cure palliative (Sicp) che, insieme alla Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva e alla Federazione cure palliative, ha pubblicato un documento in cui prende posizione (position paper) e chiede alle “istituzioni sanitarie nazionali, regionali e locali di prevedere urgentemente specifici protocolli di cure palliative e di inserire la figura del palliativista nelle unità di crisi regionali e locali”. A dieci anni dalla sua approvazione in Italia, la legge sulla terapia del dolore non può essere disattesa proprio nel momento in cui c’è più bisogno di applicarla per non lasciare soli i malati nella sofferenza.

Sensazione di soffocamento
Una delle complicanze dell’infezione da covid-19 è un’insufficienza respiratoria che peggiora in tempi rapidi, causando gravi sofferenze sia fisiche sia psicologiche. Alla dispnea, che può portare alla sensazione di soffocamento, si aggiungono nelle forme più gravi o terminali ansia, angoscia, confusione mentale, agitazione psicomotoria e senso di morte imminente. “Soprattutto nei malati che non sono candidati alla ventilazione meccanica è una buona pratica clinica, oltre che un dovere etico, deontologico e giuridico, un’attenta valutazione e un rigoroso trattamento di tali sintomi al fine di ridurre al massimo le sofferenze, soprattutto nella fase finale di vita”, si legge in una lettera indirizzata alle istituzioni dal presidente della Sicp, Italo Penco.

Gli ospedali non sono attrezzati per prendersi cura del fine vita di tutti i pazienti

Ma la condizione di emergenza, il sovraccarico di lavoro per gli operatori sanitari, l’isolamento dei malati di covid-19 in camere alle quali possono accedere solo i sanitari, insieme alla rapidità con cui la malattia può evolvere, sono tutti fattori che rendono più difficile gestire la situazione. Spesso non c’è il tempo né la possibilità di trasferire i malati terminali in un hospice, una struttura specializzata nelle cure palliative. E gli ospedali non hanno abbastanza personale adeguatamente formato, né sono attrezzati per prendersi cura del fine vita di tutti i pazienti. Lo stesso vale per le strutture di cura e di lunga degenza per anziani.

È proprio nelle residenze per gli anziani che si concentra la metà dei morti di covid-19 accertati in Europa, come ha dichiarato Hans Kluge, direttore dell’Oms per l’Europa, che parla di “una tragedia umana inimmaginabile”. Negli ospizi e nelle residenze sanitarie assistenziali (rsa) sono ad alto rischio sia gli anziani, per la loro fragilità, sia gli operatori, che spesso non hanno protezioni adeguate e sono sottoposti a un carico di lavoro eccessivo.

In queste condizioni diventa difficile garantire il diritto a morire con dignità anche a chi soffre di altre malattie. Le risorse umane, i posti letto e le apparecchiature a disposizione sono insufficienti di fronte alla crescita esponenziale dei ricoveri. Vengono così compromesse le prestazione sanitarie ordinarie, scrive The Lancet, e non si riescono ad assicurare cure palliative in sicurezza né la qualità e l’integrità dell’assistenza.

Negli hospice stessi è infatti difficile garantire cure palliative complete, che non sono fatte solo di supporto farmacologico, ma anche di attenzioni, dialogo e vicinanza ai malati e ai familiari. Già i semplici dispositivi di protezione, come le mascherine che coprono il volto, impediscono un vero scambio e le misure di distanziamento inibiscono il contatto fisico, quando invece toccare il paziente anche solo con una mano può creare empatia e rassicurare la persona malata.

Inoltre, per contenere il rischio di contagio e garantire la sostenibilità dei servizi, gli hospice hanno dovuto ridurre al minimo le visite dei familiari, spesso limitandole agli ultimi momenti di vita del paziente, e a volte neanche a quelle. Le decisioni se sospendere o limitare le visite dei familiari, e in quale misura, sono state prese dalle singole direzioni sanitarie. Nel tentativo di assicurare quello spazio di cura personalizzata tra équipe, pazienti e famiglie, alcune strutture si sono attrezzate con videochiamate e attività psicologiche di supporto a distanza per i familiari, e cercando di dedicare più tempo alla relazione con il malato. Molti operatori hanno fatto l’impossibile per creare una sorta di vicinanza anche quando per legge si devono mantenere le distanze.

Il trauma per chi rimane
Un’altra emergenza riguarda i funerali delle persone morte a causa del covid-19, in assoluta solitudine, nelle terapie intensive o nelle case di riposo. Il senso di desolazione e impotenza che si prova nell’isolamento forzato e l’impossibilità di essere a fianco del proprio caro, di dargli l’ultimo saluto, di fare un funerale e di ricevere i gesti rituali del cordoglio sono un trauma. Per superarlo, possono essere d’aiuto le parole e anche solo i piccoli gesti degli operatori sanitari, sia medici sia infermieri, che si sono impegnati per curare il proprio caro e stargli vicino fino alla fine. Come l’infermiera che organizza una videochiamata per far “incontrare” il paziente e i familiari un’ultima volta.

La percezione di un’autentica partecipazione umana sarà molto importante in caso di morte del paziente

In questi giorni le società scientifiche italiane di medici palliativisti, medici dell’emergenza-urgenza, rianimatori e infermieri hanno pubblicato un documento indirizzato alle realtà assistenziali per il covid-19 che fornisce delle indicazioni pratiche per “facilitare la comunicazione con i familiari, anche nelle condizioni estreme di completo isolamento”. Messo a punto da medici, infermieri, psicologi e giuristi, il documento spiega che le persone “ricordano quanto hanno ricevuto in termini non solo di risultati clinici ma anche di umanità, vicinanza e sostegno psicologico da parte delle équipe di cura” e inoltre “la percezione di un’autentica partecipazione umana alla vicenda di malattia sarà particolarmente importante in caso di morte del paziente, e potrà influenzare il processo di elaborazione del lutto”.

Contenere il prezzo degli oppioidi
Le difficoltà sono ancora maggiori nei paesi a basso e medio reddito, dove i sistemi sanitari sono più deboli. La mancanza di accesso all’acqua potabile, le condizioni igieniche precarie, insieme alla scarsa preparazione alle epidemie e alla carenza di dispositivi di protezione individuale e di tecnologia medica, rendono difficile contenere i contagi e rispondere ai bisogni dei malati. In questi contesti, scrivono su The Lancet due palliativisti, un’economista sanitaria, una consulente di salute globale e il presidente dell’International narcotics control board, è prevedibile che molti malati gravi di covid-19 non potranno accedere alle cure intensive o ai letti d’ospedale, e moriranno a casa senza terapie, curati da familiari privi di dispositivi di protezione. Inoltre, le poche risorse sanitarie saranno usate per rispondere all’emergenza e diminuirà la disponibilità per gli altri pazienti terminali, che potrebbero essere costretti a cedere il proprio posto letto.

Gli autori dell’articolo propongono alcune strategie da adottare sia a breve sia a lungo termine, per migliorare l’offerta di cure palliative durante e dopo la pandemia di covid-19. Nei paesi penalizzati da economie deboli con carenza d’infrastrutture si possono percorrere due strade. In primo luogo, è necessario aumentare le scorte di farmaci oppioidi e impedire l’aumento dei costi attraverso la creazione di piattaforme d’acquisto condivise e negoziando prezzi trasparenti. L’International narcotics control board ha invitato i governi a garantire l’accesso ad alcuni farmaci, inclusi gli oppioidi, adottando procedure semplificate per l’esportazione, il trasporto e la fornitura dei medicinali.

In secondo luogo è fondamentale garantire in tempi brevi una formazione di base sull’uso razionale degli oppioidi e sulle cure compassionevoli a tutti i medici di base e a quelli dei reparti di emergenza e delle unità di terapia intensiva. Per anni le associazioni hanno chiesto che le cure palliative fossero insegnate nelle scuole di medicina e infermieristica. “Se la loro richiesta fosse stata ascoltata ora il personale sanitario sarebbe più preparato ad affrontare quest’epidemia”, si legge nell’articolo. Il problema della grande carenza di medici specialisti è una realtà che non riguarda solo i paesi poveri, ma anche l’Italia.

“Una pandemia è causa di sofferenza e ne è un potente amplificatore, attraverso la malattia fisica e la morte, lo stress e le ansie, e l’instabilità economica e sociale. Alleggerire questa sofferenza, in tutte le sue forme, dev’essere una parte fondamentale della risposta”, conclude l’editoriale di The Lancet.

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