10 luglio 2020 15:57

Con la pandemia il numero R di riproduzione è diventato alla portata di tutti, citato sulla stampa e sui social network, sui bollettini settimanali delle istituzioni nonché usato da politici e governatori. Ad aprile, per illustrare ai cittadini come l’epidemia si sarebbe potuta espandere, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva spiegato il significato di questa metrica usata in epidemiologia con un linguaggio chiaro e rigoroso, probabilmente grazie alla sua formazione scientifica con un dottorato di ricerca in fisica-chimica.

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A maggio il primo ministro britannico Boris Johnson (che aveva fatto dell’immunità di gregge il suo cavallo di battaglia quando l’epidemia stava per varcare la Manica) ha mostrato in un discorso alla nazione una serie di grafici per spiegare come il Regno Unito sarebbe uscito in sicurezza dal lockdown. Il grafico principale, fa notare la rivista Nature, era quello con una lettera R gigante e una lancetta in un quadrante colorato che puntava sul numero 1 quale limite massimo da non superare: “Tutti “, aveva dichiarato il premier , “dovranno contribuire a tenere basso il fattore R, facendo attenzione e seguendo le regole”.

Oltre a una buona dose di popolarità, il numero R ha acquisito un certo potere diventando un parametro di riferimento per gli organi decisionali e le commissioni tecniche – forse, però, senza che ne venisse sempre colto fino in fondo il significato e soprattutto senza riconoscerne i limiti. “Il fascino potrebbe essersi trasformato in una malsana fissazione politica e mediatica”, scrive Nature.

La famiglia degli R
Questo numero nasce originariamente in demografia con il nome di “erre con zero” (R0) per calcolare il tasso netto di riproduzione (erre) in una generazione (zero). Negli anni cinquanta venne adottato per studiare la propagazione della malaria e da allora è uno degli indicatori di base in epidemiologia. R0 stima il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione che non è mai venuta a contatto con il patogeno emergente. Quando è pari a due significa che una persona contagia in media due persone, che a loro volta ne contagiano altre quattro, che ne infettano altre otto e così via. Quando è pari a 0,5 significa che una persona in media infetta meno di una persona e due persone ne contagiano una soltanto.

Maggiore è il valore di R0, tanto più alto è il rischio che l’epidemia si diffonda in modo considerevole. Quando supera il valore di uno la diffusione del virus accelera fino a diventare fuori controllo. La valutazione di R0, insieme ad altre metriche, è stata cruciale all’inizio dell’epidemia di covid-19 per capire attraverso modelli epidemiologici come si sarebbe potuta diffondere la malattia, e per valutare la necessità e l’urgenza di intervenire con delle misure di contenimento, come è stato fatto in diversi paesi.

Sappiamo che in Italia il virus Sars-cov-2 aveva un R0 di 2,5 casi circa. Ora ha un Rt che oscilla tra 0,2 e 0,7

Tuttavia ora non si parla più di R0, perché questo indicatore si riferisce alla popolazione “zero” di partenza, presupponendo che tutti siano sensibili all’infezione. Nel passaggio dalla fase 1 alla fase 2 e da questa alla fase 3 la metrica di riferimento è un’altra “erre”: Rt, che viene calcolato con il progredire dell’epidemia dopo l’applicazione delle misure di contenimento dei contagi, tenendo conto che alcune persone potrebbero essere immuni perché sopravvissute alle infezioni o, se è disponibile un vaccino, perché vaccinate.

Rt è un indice che misura la potenziale trasmissibilità legata alla situazione contingente e come tale può fluttuare continuamente, a differenza di R0 che resta sempre uguale perché dipende dalle caratteristica del virus in una popolazione di soggetti suscettibili. Quindi sappiamo che in Italia il virus Sars-cov-2 aveva un R0 di 2,5 casi circa e ora, grazie alle misure che contrastano la diffusione del virus, ha un Rt che oscilla tra 0,2 a 0,7 salvo la comparsa di nuovi focolai.

Una lettura fuorviante
Il numero R a cui si riferiva il premier Johnson è proprio questo, l’Rt. Nel momento in cui supera la soglia dell’uno, il campanello d’allarme suona. Ma lavorare con questo tipo d’indicatori richiede mediazioni e compromessi, spiega Nature.

Innanzitutto l’indice fornisce una stima (e non una misura) del valore di trasmissibilità. A questo si aggiunge un altro limite, cioè che Rt rappresenta un valore medio e come tale andrebbe interpretato. La media fatta sull’intero paese può nascondere un piccolo cluster di infezione. E viceversa un focolaio circoscritto basta a far alzare l’Rt regionale superando la fatidica soglia di sicurezza, come è avvenuto in tre regioni italiane: Emilia-Romagna, Veneto e Lazio, secondo il report sul monitoraggio relativo alla settimana dal 22 al 28 giugno pubblicato dal ministero della salute e dall’Istituto superiore di sanità.

Qualcosa di analogo è avvenuto a fine giugno in Germania, dove su scala nazionale l’indice Rt aveva raggiunto il valore di 2,88 in coincidenza di un focolaio di covid-19 con più di 1.500 contagi in un impianto di macellazione della carne, nel distretto di Gütersloh, nel Nordreno-Vestfalia. Il focolaio aveva alzato la media nazionale di Rt, anche se il numero d’infezioni nel resto del paese era molto basso, e l’indice non era quindi un elemento di grande preoccupazione. Nel giro di pochi giorni, infatti, l’Rt era sceso nuovamente al di sotto dell’uno.

“Ma il numero R non servirà a molto per prendere decisioni in tempo reale se arriva con un ritardo di dieci giorni”

Come si legge sul sito dell’Istituto superiore di sanità “aree del paese a bassa incidenza di infezioni da covid-19, anche piccole oscillazioni nei numeri, dovute verosimilmente a un aumento dei tamponi eseguiti, possono comportare variazioni in singoli parametri particolarmente sensibili quali appunto l’Rt. Tali variazioni possono, paradossalmente, essere la conseguenza di un miglioramento della copertura dei sistemi di sorveglianza e pertanto segnalano la capacità dei sistemi sanitari regionali di intercettare i casi e di adottare le misure adeguate per limitare la trasmissione del contagio”. Pertanto, i dati riportati di Rt “non possono e non debbono essere interpretati come una pagella e soprattutto vanno letti nel loro insieme come una fotografia della situazione e della capacità di risposta”.

Un indice ritardatario
Ma ancor prima della lettura e interpretazione del valore di Rt si pone il duplice problema della qualità, origine e tempestività dei dati. Il calcolo di Rt si basa sul numero totale di infezioni che viene a sua volta calcolato a partire dai dati sulla mortalità e sui casi confermati. In Italia si discute sulla qualità dei dati forniti alle istituzioni per il monitoraggio settimanale regionale: i dati sarebbero spesso incompleti e difettosi all’origine, perché si fanno troppi pochi tamponi o perché vengono trasmessi dalle diverse aziende sanitarie in tempi diversi. Inoltre i dati sono eterogenei, inizialmente si riferivano ai casi sintomatici mentre ora si tratta spesso dei risultati dei test sierologici, che individuano la presenza degli anticorpi nel sangue. Infine mancano dei parametri di riferimento.

Incertezze a parte, c’è la questione dei tempi di lavorazione richiesti dalla raccolta dei dati per il calcolo dell’indice Rt. Servono da una a tre settimane, scrive Nature. “Ma il numero R non servirà a molto per prendere decisioni in tempo reale se arriva con un ritardo di dieci giorni, o addirittura di due settimane”, commenta Gabriel Leung dell’università di Hong Kong, esperto di epidemiologia e salute pubblica. Per aggirare il problema e anticipare i tempi si potrebbe usare il trucco matematico del nowcasting che prevede quanto sarà aumentato il numero di nuove infezioni, per esempio dopo due settimane, sulla base della distribuzione statistica osservata dei ritardi di segnalazione.

Il peso dei superdiffusori
Davanti alla scelta su quando riaprire scuole e uffici, e quali attività vietare nei luoghi chiusi, una domanda chiave da porsi non riguarda solo il numero Rt. Sia la ricerca sui casi reali sia i modelli della pandemia indicano che tra il 10 e il 20 per cento delle persone infette sono responsabili per l’80 per cento della diffusione del coronavirus: a determinare il ruolo di questi soggetti definiti “superdiffusori” non sono le loro caratteristiche biologiche, ma piuttosto le circostanze in cui si muovono, come gli eventi in spazi affollati, chiusi e ventilati male, e le attività svolte, come il canto o un’intensa attività fisica. Anche il numero delle persone infette che circolano per le strade incide sul rischio di trasmissione del virus, scrive Nature: “Danimarca e Regno Unito hanno valori Rt simili, ma tenuto conto che il numero di persone infette per la strada in Danimarca è dieci volte inferiore, lì è più sicuro riaprire le scuole”.

Gli scienziati per primi hanno dei dubbi sull’utilità del popolare numero R in mano ai decisori politici in questa fase, senza che siano chiaramente esplicitati i limiti dei modelli e le incertezze in gioco. Per i paesi che si stanno riprendendo dalla prima ondata della pandemia, conclude Nature, sarebbe molto più importante concentrarsi sui tamponi, sulla ricerca di cluster per isolare i casi infetti e rintracciare i loro contatti, piuttosto che guardare l’ago che oscilla su un quadrante colorato.

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