13 ottobre 2021 14:34

Prima del riff di armonica che apre È stata tua la colpa, delle riletture satiriche e a uso e consumo di tutti di Pinocchio e Peter Pan, di Viva la mamma e Un’estate italiana, Edoardo Bennato è stato soprattutto La torre di Babele. Lo è stato per un anno solo, il 1976, visto che l’estate successiva sarebbe arrivato Burattino senza fili, a cui a lungo l’Italia avrebbe associato la sua identità di cantautore anarchico, ironico, fiabesco. Ma abbastanza, comunque, da non far parlare di un disco minore.

Grazie a quelle canzoni, infatti, ha maturato uno stile di scrittura proprio, mentre per la prima volta il pubblico si è accorto davvero di lui. E sono motivi che, quarantacinque anni dopo, valgono una ristampa con nastri originali rimasterizzati e vari extra. “Anche se”, ammette al telefono, “si tratta più di un’operazione decisa dai discografici che altro”. Lo dice in maniera sbrigativa, a margine di un discorso dai ritmi più ponderati. È sincero: “A me interessa il futuro, non il passato”. Però? “Però il concept dell’album è molto attuale: la nostra babele di idee e conflitti è perfino più esasperata rispetto agli anni di piombo”.

La metafora biblica, infatti, racconta l’Italia di allora, quelle delle bombe, dei movimenti studenteschi e della lotta armata. Quando cominciò a scrivere i brani, Bennato aveva alle spalle trent’anni di esperimenti, un’infanzia nel quartiere di Bagnoli, periferia industriale di Napoli dai condomini “multietnici con cento famiglie l’uno”, qualche esame alla facoltà di architettura e una carriera da cantautore ancora opaca. “Nel 1973 dopo l’esordio di Non farti cadere le braccia”, racconta, “la mia etichetta, la Ricordi, mi intima di cambiare mestiere: ho una voce sgraziata, le radio non sono intenzionate a trasmettermi. Ma senza quel rifiuto La torre di Babele non sarebbe nato”. E lui probabilmente non sarebbe quello che conosciamo. Piuttosto che smussare gli angoli, infatti, li acuisce. Scopre il punk, comincia a esibirsi in strada e a riempire le canzoni di versi, urla, allusioni sarcastiche e melodie importate dal blues e dal twist, fra Bob Dylan (da cui prende l’uso dell’armonica), il rock statunitense e colleghi come Fabrizio De André. Trova un’identità sua, con altri due album di rodaggio a cui corrisponde un successo crescente, seppur ancora piccolo. Ma il 1976 era ormai il momento dei cantautori, con il pubblico disinteressato “ai grandi divi delle canzonette” che cerca spunti altrove. E così quando finalmente gli ha rivolto l’attenzione, lui si è fatto trovare pronto.

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Però era diverso dai colleghi, Bennato, e La torre di Babele prendeva le distanze dal cantautorato dell’epoca. “Come tutte le mie canzoni era figlio dell’essere in contemporanea architetto, urbanista, sociologo e pazzaglione”, spiega. Tradotto: era figlio di un artista capace di giocare su più piani, disegnando melodie accattivanti e leggere che in realtà nascondono messaggi amari, sociali. Già dalla copertina, disegnata da lui stesso con “una torre diversa da quella della tradizione biblica, in cui in ogni piano si trovano le armi brevettate dall’uomo seguendo la linea evolutiva”. Dalla clava ai missili. “Da millenni coltiviamo la perversione di ucciderci”, dice. “Siamo in conflitto, sempre. E non sarebbe difficile un accordo: basterebbe preservare la verità incontestabile della scienza, e poi aprirsi al dialogo. Ma il mondo è diviso in fazioni e in tifoserie. Io non sono mai stato dentro questo schema, a costo di essere tacciato di qualunquismo”.

E infatti La torre di Babele è tanto anarchico sul piano musicale, fra ballate malinconiche e divertissement ballabili, influenze statunitensi e tradizione mediterranea, quanto difficile da inquadrare su quello ideologico. Sposa valori precisi – vicinanza agli ultimi, disprezzo per il potere, antirazzismo, pacifismo – ma è orgoglioso di non schierarsi da nessun lato della barricata. “Si tratta di un album politico ma non militante”, sintetizza Bennato. Semmai, dice, la forza dell’opera è nell’ironia dei testi, nel loro contrapporsi alla musica. Una piccola eresia, nell’epoca dell’impegno.

Viva la guerra per esempio è un inno parossistico già dal titolo, Quante brave persone un blues irrequieto e sarcastico, mentre Eaa parte come un rockabilly in apparenza leggero, raccontando la gita spensierata di una scolaresca su un autobus con i freni rotti e il conducente consapevole del guasto, pronto a tuffarsi fuori, da solo, un attimo prima dello schianto. Una sorta di Titanic in scala ridotta. E poi c’è Franz è il mio nome, ballata ricoperta di paillette nata da un viaggio nella Berlino divisa, una Berlino “carcere al contrario, in cui si è liberi solo vicino al Muro, mentre più in là dominano le bugie di oriente e occidente”. Franz, il protagonista, vende sogni agli esuli dell’est, ma a ovest non li aspetta la terra promessa, “piuttosto solo consumismo da vetrina”. Lo stesso che regola l’ansia della dylaniana Venderò, forse il pezzo più famoso del lotto, con testo del fratello Eugenio. Canta: “Venderò il mio diploma ai maestri del progresso, per costruire un nuovo automa che dia a loro più ricchezza e a me il successo”. E ancora: “Ogni cosa ha il suo prezzo, ma nessuno saprà quanto costa la mia libertà”. Già, quanto? “L’essere considerato un rinnegato da molti circoli intellettuali. E ne vado fiero”.

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Eppure, nonostante i proclami d’indipendenza, con il successo Bennato è stato davvero “comprato dal sistema”. O almeno così lo accusavano gli Autoriduttori, un movimento vicino alla sinistra extraparlamentare per cui musica e concerti dovevano essere gratuiti. Interrompevano i live, fischiavano gli artisti, li sottoponevano a processi davanti agli spettatori. Succedeva a cantautori come De Gregori, Antonello Venditti e Lucio Dalla, tacciati di arricchirsi cantando di quei temi cari ai socialisti, succedeva a nomi internazionali come Lou Reed e Led Zeppelin. “E pensa che avevo anche imposto il prezzo simbolico di mille lire”, sorride Bennato ricordando quando le contestazioni arrivarono sotto il suo palco, nel settembre 1977 a Pesaro. Alcuni estratti di quello show si trovano nella ristampa di La torre di Babele, e trasmettono lo stesso clima di tensione.

“Mi accusavano di essere un venduto, quando in realtà in un pezzo come Cantautore, sempre del 1976, invitavo tutti a non prendermi sul serio, a non divinizzarmi”. Non bastò. “Gli Autoriduttori fecero irruzione nel palasport pensando di avere di fronte un divo della canzonetta, al massimo un intellettuale posato. Invece trovarono me, esaurito da un tour sfiancante e con una gamba ingessata. Non ho mai avuto manager e figure simili: ho sempre girato con gli amici del cortile, quelli con cui ero cresciuto a Bagnoli. Gente poco incline alle provocazioni. Provammo a non rispondere ai fischi. Ma quando la situazione degenerò interrompemmo il concerto. Finì in rissa. Altro che processo”.

Poco allineato al contesto anche in questo, Bennato oggi li definisce “borghesi che giocavano alla rivoluzione”, ma lascia lo stesso trasparire un po’ di nostalgia per quei tempi in cui la musica era percepita e vissuta come un impegno, piuttosto che “come posa”. Rispetto agli anni settanta, dice, lui non è cambiato: è rimasto alternativo, “controcorrente e pieno di dubbi”, nonostante la popolarità che sarebbe arrivata dal 1977 – nel 1980 sarà il primo artista italiano a esibirsi allo stadio San Siro, poche settimane dopo Bob Marley. Ma non pensa di essere stato profetico, con la Torre di Babele. “La storia che racconta la Bibbia è quella degli uomini che sfidano dio, la natura, e vengono puniti da forze superiori, che li fanno sprofondare nel caos. Credo sia un caso, ma vedo parallelismi con il mondo di oggi, con la pandemia. Siamo in una babilonia totale, il disco ci parla ancora”.

E se l’autobus di Eaa continua a scivolare giù con i freni guasti verso la tragedia, senza che nessuno se ne accorga, mentre le vetrine di Venderò sono accese – “le guerre seguono lo stesso copione del 1976 e gli ultimi sono ancora ultimi” – l’ironia e i personaggi di La torre di Babele sono una bussola anche per il 2021.

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