“Proponiamo interpretazioni ma soprattutto poniamo domande”, dice Victoria Mann, l’ideatrice di Also known as Africa (Akaa), la prima fiera d’arte contemporanea africana organizzata a Parigi. L’appuntamento è al Carreau du temple, il mercato ottocentesco in vetro e mattoni, dall’11 al 13 novembre. Finalmente. Un anno fa la prima edizione era stata rinviata a causa della strage al Bataclan. Nel frattempo la proposta si è arricchita di contatti, incontri, scoperte. Trenta gallerie, quasi tutte aperte negli ultimi dieci anni, dal Cairo a Johannesburg, da Addis Abeba a Harare, senza dimenticare la diaspora, da Londra a New York. Centoquindici artisti e almeno altrettante Afriche, angoscianti o gioiose e quasi sempre sconosciute.

“Vogliamo mostrare la ricchezza dell’arte contemporanea del continente in tutta la sua pluralità”, spiega Mann, 31 anni, imprenditrice e collezionista, studi in Francia e negli Stati Uniti, di casa a Lagos e a Dakar. “La nostra Africa non ha confini, è un territorio in movimento, non riducibile a una definizione univoca”, aggiunge. Sculture, installazioni, visioni e disegni sono stati scelti con l’aiuto di collaboratori di prestigio, come Simon Njami, il direttore artistico dell’ultima Biennale di Dakar, o Azu Nwagbogu, l’ideatore del Lagos photo festival. Cercatori d’oro in un continente che cresce al ritmo dei suoi milionari: ormai 165mila, più 80 per cento dal 2005 al 2015. Decennio cruciale, con il moltiplicarsi di rassegne, esperimenti, gallerie. Qualche nome? Addis fine art, spazio di critica e provocazioni, nato nel gennaio scorso, in dialogo costante con la diaspora etiopica in Europa e negli Stati Uniti. O Circle art agency, aperta a Nairobi nel 2015, contaminazioni dal Kenya, al Ruanda, alla Tanzania. Nuovi protagonisti, essenziali per far arrivare al pubblico internazionale proposte e fermenti fino a pochi anni fa quasi del tutto ignorati.

Due opere di Gastineau Massamba: a sinistra, Où est ma part, 2015; a destra, Rose sensation, 2016. (Carine Deambrosis e Frid Armal Louzala, Per gentile concessione di KO21 e dell'artista)

Mann ricorda Magiciens de la terre, la mostra parigina che nel 1989 fece emergere, forse per la prima volta, curiosità e interessi poi sempre più vivi. Punto di partenza di un cammino che porta al Carreau du temple. Sorpresa, sgomento, incanto: basta guardare le stampe a pigmenti di Nicola Brandt, fotografa namibiana che si inoltra tra gli orrori del passato coloniale. Una donna herero di spalle, con il tipico copricapo a forma di corno, cammina lungo i binari posati dalle vittime del primo genocidio del ventesimo secolo.

Fantasmi che stanno accanto alle lamiere ossidate di Naomi Wanjiku Gakunga, sperimentatrice del “jua kal”: in swahili “sotto il sole bollente”, nella trasposizione artistica metamorfosi corrosiva ed eterea fugace bellezza. Spunti. Versioni soggettive, parziali o misteriose. Come i pittogrammi ashanti rielaborati in chiave simbolica dal ghaneano Owusu-Ankomah, o i ricami con fili di cotone colorato del congolese Gastineau Massamba. E si capisce perché il tema della prima edizione di Also known as Africa è “l’invenzione dell’autenticità”: poche parole per provare ad avvicinarsi alle mille anime del continente.

“Negli ultimi anni l’attenzione è cresciuta e il nostro obiettivo è renderla più stabile e consapevole”, spiega Mann, che in questo tentativo non è sola. Tra i suoi riferimenti c’è Bisi Silva, testimone di un interesse senza precedenti, animatrice proprio la settimana scorsa della prima edizione dell’Art X Lagos: “Venticinque anni fa i curatori avrebbero avuto paura di andare nel ‘continente nero’, mentre adesso tutti mi chiamano e mi dicono che vogliono venir qui o in Ghana o che invece magari ci sono stati già”. Lagos, Accra, Addis Abeba o Johannesburg, maglie di una rete che apre spazi e conquista visibilità, mentre si moltiplicano i nomi di successo: dall’angolano Edson Chagas, il fotografo della quotidianità contraddittoria di Luanda, Leone d’oro a Venezia, al nigeriano Okwui Enwezor, curatore in laguna della Biennale All the world’s futures, “Tutti i futuri del mondo”.

Queen colonaaiers and her weapons of mass destruction I, 2015. (Thania Petersen, Per gentile concessione della galleria Everard Read)

Bene comunque vada, purché ci sia l’Africa. Lo conferma la decisione della casa londinese Sotheby’s di tenere a maggio la prima asta interamente dedicata all’arte contemporanea subsahariana. A prepararla è una pioniera, Hannah O’Leary, che parla di “piattaforma senza precedenti” e “mercato dalle potenzialità enormi ancora inespresse”. E non c’è solo Sotheby’s.

Crescono musei e fondazioni, come la Fondazione Zinsou, istituita in Bénin nel 2005, ormai riferimento a livello internazionale. E poi la Fondazione Zeitz, uno dei progetti più ambiziosi, finanziato dal magnate e collezionista tedesco Jochen Zeitz: 42 silos alti nove piani, aggrappati gli uni agli altri, tanto cemento e zero immaginazione, si stanno trasformando nel museo d’arte contemporanea africana più grande al mondo. Il cantiere è sorto in un granaio costruito negli anni venti sul lungomare di Città del Capo, di fronte all’ex carcere di Robben Island dove ai tempi dell’apartheid fu prigioniero Nelson Mandela. Per capire come sarà l’inaugurazione, prevista nel 2017, basta guardare i disegni: atrio ellittico inondato di luce attraverso il tetto a vetri della sezione centrale, roof garden con vista sulla Table mountain, anfiteatro per performance all’aperto, centri di formazione per studenti, 80 gallerie d’arte e seimila metri quadrati di spazi espositivi. Also known as Africa, l’Africa è anche questo.

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