07 giugno 2020 15:45

Il 1 ottobre del 1991 le porte della Casa Bianca si aprirono ai Chicago Bulls. Come succede ancora oggi, il presidente degli Stati Uniti invitava le squadre vincitrici dei principali campionati della stagione precedente. Quel giorno a stringere la mano a George H.W. Bush c’erano tutti, tranne Michael Jordan. Il leader della squadra e miglior giocatore delle finali, infatti, aveva preferito andare a giocare a golf (scommettendo denaro, come d’abitudine) con James ‘Slim’ Bouler, uno spacciatore. Meno di un anno dopo, Bouler fu condannato per riciclaggio, e durante il processo si venne a sapere che aveva incassato un assegno da 57mila dollari staccato da Jordan, che doveva aver perso malamente a golf.

In ogni caso, quel 1 ottobre, l’assenza di Jordan e il fatto che Bush fosse notoriamente più interessato al football, al golf e alla pesca lasciavano prevedere un pomeriggio noioso, la classica situazione in cui un politico conservatore si fa vedere al fianco di un gruppo di neri di successo per strizzare l’occhio alla comunità afroamericana. E invece quando la squadra si presentò davanti al presidente si capì che poteva succedere qualcosa di imprevedibile. Tra i dirigenti, gli allenatori e i giocatori, tutti impeccabilmente in completo scuro, camicia bianca e cravatta, spiccava un uomo vestito tutto di bianco. Indossava un dashiki, una tunica originaria dell’Africa occidentale, un copricapo bianco e scarpe basse bianche.

Hodges dopo aver vinto la gara del tiro da 3 punti nel 1991. (Andrew D. Bernstein, Nbae/Getty Images)

George W. Bush, figlio del presidente e futuro presidente, gli si avvicinò e cominciò a parlargli lentamente, pensando che fosse africano e che non capisse l’inglese. “Da dove vieni?”, gli chiese scandendo bene le parole. “Da Chicago Heights, Illinois”, rispose l’altro.

A rompere l’imbarazzo intervenne Phil Jackson, l’allenatore dei Bulls, spiegando ai Bush che l’uomo in bianco si chiamava Craig Hodges ed era il miglior tiratore della squadra.

Hodges accettò di dare prova della sua abilità mettendosi a tirare sul campo nel prato sud della Casa Bianca. Segnò nove tiri di seguito da più di 7 metri, senza perdere il copricapo e con la lunga tunica che sventolava dopo ogni tiro. Ma Hodges non era lì per quello: mentre il gruppo lasciava il campo si avvicinò al presidente e gli consegnò una lettera scritta a mano. Era un appello a migliorare le condizioni di vita dei neri.

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Nei giorni in cui il mondo sembra accorgersi di colpo della violenza contro gli afroamericani, vale la pena di leggere alcune righe di quel testo scritto 29 anni fa:

Come discendente di schiavi, sento la responsabilità di parlare per conto di quelli che non riescono a farsi sentire. Negli Stati Uniti c’è una parte della popolazione che è una specie in via di estinzione. Sono i giovani maschi neri. I quartieri neri sono in uno stato d’emergenza a causa della violenza, le droghe e la mancanza di lavoro. I cittadini di questa grande nazione devono scegliere da quale lato della storia schierarsi in questo momento decisivo

Ancora oggi Hodges è convinto che Bush non lesse mai la lettera. È probabile che abbia ragione. Ma anche se l’avesse letta, il presidente avrebbe comunque ignorato il messaggio. In piena guerra del Golfo, con l’economia in difficoltà e alle prese con una complicata campagna per la rielezione, Bush non pensava certo che occuparsi degli afroamericani gli avrebbe fatto guadagnare consenso.

Quanto a Hodges, era abituato a predicare nel deserto. A giugno di quell’anno, il giorno prima dell’inizio delle finali tra Lakers e Bulls, aveva proposto a Magic Johnson e a Michael Jordan di rinviare la partita per mandare un messaggio contro il razzismo. A inizio marzo Rodney King, un nero di 28 anni, era stato selvaggiamente picchiato da quattro poliziotti bianchi a Los Angeles, e il paese intero aveva guardato il video del pestaggio. “Tu sei pazzo”, gli aveva risposto Jordan. Johnson era stato appena più solidale: “È una cosa troppo estrema, amico”. “Quello che succede alla nostra gente è estremo”, aveva risposto Hodges.

In un’altra occasione aveva cercato di convincere Jordan a uscire dal contratto con la Nike per fondare una sua azienda di scarpe attraverso cui avrebbe anche aiutato le comunità nere. Una cosa impensabile per Jordan, che negli anni ottanta si era rifiutato di sostenere la candidatura di un politico nero in North Carolina contro un bianco razzista dicendo che “anche i repubblicani comprano scarpe da basket”. Hodges aveva anche proposto a tutti i suoi compagni di destinare una parte dei loro guadagni ai quartieri neri poveri, come aveva fatto lui. Ma si era sentito rispondere che era troppo difficile perché bisognava convincere gli agenti.

A quel punto Hodges aveva capito che il movimento politico che stava cercando di creare nell’Nba non avrebbe mai avuto più di un componente, lui stesso. Forse fu per questo che il 1 ottobre del 1991 si rivolse direttamente al presidente. Nonostante la frustrazione e i fallimenti, provò comunque a tenere insieme l’attivismo politico e le ambizioni sportive. Forse era troppo ingenuo per capire che nell’America di allora, ancora ebbra d’egoismo reaganiano, questo non era possibile. In quel contesto sembrava che il gesto politico più forte che un atleta nero potesse fare era uscire dal ghetto e diventare ricco.

Il 29 aprile del 1992, mentre i Bulls cavalcavano verso le finali per il secondo anno consecutivo, i poliziotti che avevano picchiato Rodney King vennero assolti, e a Los Angeles scoppiarono delle rivolte che si conclusero con 63 morti e 2.300 feriti. Dopo la seconda partita delle finali contro i Portland Trail Blazers, Hodges criticò Jordan per non aver preso posizione sulla vicenda King. I Bulls vinsero il secondo titolo consecutivo, ma lui non ebbe nemmeno il tempo di festeggiare. Chicago non gli rinnovò il contratto e lui non trovò nessuna squadra Nba disposta a ingaggiarlo, nonostante fosse a detta di tutti uno dei migliori tiratori della storia. A dimostrarlo c’erano le tre vittorie consecutive nella gara del tiro da tre punti durante l’all star game (impresa raggiunta solo da lui e da Larry Bird), compresa quella del 1991, in cui stabilì il record di canestri consecutivi, 19.

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Ancora oggi Hodges è convinto che Jordan, il suo agente David Falk e altri che non vedevano di buon occhio la sua amicizia con Louis Farrakhan – il leader della Nation of islam – abbiano complottato per buttarlo fuori dalla lega. Non è un’idea azzardata, considerato che Jordan si è sempre vantato delle vendette contro chiunque lo avesse sfidato o criticato. E il fatto che Hodges non compaia mai in The Last Dance, il documentario sull’epopea dei Bulls degli anni novanta, dimostra che il suo contributo a quella squadra è stato completamente cancellato.

Hodges giocò qualche ottima partita con la Clear Cantù, in Italia, poi in Turchia e nelle leghe minori statunitensi, e infine diventò allenatore. Tornò in Nba come assistente di Phil Jackson – il suo vecchio allenatore ai Bulls, una delle poche persone che non gli avevano voltato le spalle – ma poi si allontanò definitivamente da quel mondo. Oggi allena la squadra del liceo Rich East di Park Forest, vicino a Chicago, dove negli anni settanta cominciò la sua carriera. Forse è uno dei pochi allenatori che insegna ancora il triangolo, lo schema offensivo usato dai Bulls di Jackson. Ha raccontato la sua storia, sportiva ma soprattutto politica, in un libro uscito nel 2017.

Ripercorrendo la sua vicenda ci si può fare un’idea di cosa è cambiato negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni e di cosa è rimasto uguale. È cambiata l’Nba, senza dubbio. Oggi i giocatori denunciano liberamente il razzismo e se vogliono possono criticare il presidente degli Stati Uniti. Da tre anni la squadra campione si rifiuta di andare a trovare Donald Trump alla Casa Bianca. I giocatori più forti e famosi, a differenza di Jordan e Magic negli anni ottanta e novanta, sono così influenti da riuscire a condizionare il comportamento degli sponsor, compresa la Nike. Ma questo non vale per tutti gli atleti. Se giocasse oggi, Hodges avrebbe sicuramente più visibilità e solidarietà, ma probabilmente finirebbe comunque fuori dal giro che conta, come è successo al giocatore di football Colin Kaepernick.

Non è cambiata la polizia, non è cambiata la sensazione di impotenza delle persone come Hodges, non è cambiata la vita dei giovani neri, che ogni giorno rischiano di incontrare il bianco sbagliato, magari in divisa.

(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)

Correzione: la citazione di Michael Jordan è stata corretta. Quella giusta è “Anche i repubblicani comprano scarpe da basket”, non “i bianchi”.

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