25 marzo 2014 09:00

“Quando scrivo non voglio essere falsa. Quando si ha talento, è molto facile essere falsi. Il talento è pericoloso, perché si è a proprio agio con le parole. A un tratto qualcosa suona bene, è carino. Si può essere facilmente provocatori e inutilmente violenti, però funziona. E io non voglio questo”.

A dirlo, in una bellissima intervista uscita su Il Fatto Quotidiano, è Yasmina Reza, scrittrice e commediografa (dal suo lavoro Il dio del massacro, Roman Polanski ha tratto Carnage).

Poche righe dopo, Reza aggiunge: “I complimenti te li ricordi e sono dei nemici. Perché se dicono di te: ‘Sa fare bene i litigi’, allora tu ti dici: ‘So fare bene i litigi’. E ti ritrovi con qualcosa che sai fabbricare ma che magari non è del tutto giusto in quel contesto e in quello spazio. Invece lo sforzo deve restare presente. Ti devi sforzare di essere sempre un debuttante”.

Vi ho ricopiato le due citazioni perché mi sembra che, tra l’una e l’altra, si sviluppi un’intera storia, e che quella storia valga sì per la scrittura, ma non solo per la scrittura. Chiunque faccia un lavoro creativo, e continui a farlo per molto tempo, pratica un costante, a volte faticoso negoziato con il proprio “saper fare”.

All’inizio di qualsiasi attività creativa, di solito, ci sono desiderio e talento, caso e fortuna in proporzioni variabili (e, ne sono discretamente certa, la componente casuale non va sottovalutata). Poi c’è – ne abbiamo già parlato – tutta la tenacia che serve a mettere in atto un lungo processo di miglioramento che si attua attraverso la pratica deliberata.

Ma qual è il rapporto tra pratica e talento, e cosa intendiamo quando diciamo “talento”? Scott Barry Kaufman, docente di psicologia alla New York university, scrive sul Guardian che si tratta di un insieme di caratteristiche individuali che accelerano l’acquisizione di competenze in una data sfera di attività, e mette l’accento sul concetto di “insieme”: per esempio, un di più di perseveranza può servire a compensare la scarsa memoria.

Kaufman sottolinea inoltre che la componente genetica del talento è importante tanto quanto sono importanti le influenze ambientali. Dunque, il talento è tutt’altro che innato. E ricorda che piccole differenze iniziali (il ragazzino che scrive, disegna, canta o conta “un po’ meglio” degli altri) possono crescere nel tempo fino a diventare molto rilevanti, oppure possono modificarsi (il ragazzino bravo a disegnare può diventare, da grande, un bravo scienziato).

Noi chiamiamo “competenza” (expertise in inglese) il saper fare che si accresce e si consolida nel tempo e, se tutto va bene, continua a consolidarsi e ad accrescersi. È una grande risorsa, ed è un dono dell’età e dell’esperienza. Tra l’altro, in molti campi, il fatto di aver messo insieme negli anni un gran repertorio di soluzioni e di tecniche aiuta a venire a capo dei problemi compensando la perdita di rapidità di pensiero che si accompagna al progredire dell’età. Così, a volte, un vecchio babbione esperto riesce a produrre una soluzione prima che ci arrivi un giovane energico, e lo fa perché quella soluzione “ce l’ha già in tasca”.

Il rischio, però - e qui torniamo a quanto afferma Yasmina Reza - è un altro: cominciare ad accontentarsi delle soluzioni che si hanno già in tasca. È una tentazione che diventa tanto più grande proprio quanto maggiori sono il talento e la competenza (e, quindi, la quantità di soluzioni già sperimentate e interiorizzate che se ne stanno lì già pronte, comode, disponibili e sicure).

Così, per sfuggire alla trappola del talento che imbalsama se stesso nella ripetizione infinita di quello che ha già funzionato, bisogna fare quel che dice Reza: prendersi nuovi rischi e tornare a essere “debuttanti”.

Un modo radicale per riuscirci è cambiare drasticamente sfera di attività. Una delle storie più belle in questo senso appartiene a Michel Eugène Chevreul. Nell’ottocento è un chimico famoso. Pubblica studi sulla luce e sul colore che influenzeranno i pittori divisionisti. Si occupa di acidi grassi e inventa la margarina. Verso i novant’anni decide che è tempo di orientare altrove i propri interessi e fonda, da vero esordiente di successo, una nuova disciplina: la gerontologia. Pubblica il suo ultimo libro a centodue anni. Il suo nome è scritto sulla Torre Eiffel.

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