10 aprile 2017 12:07

“Certo, Fred Astaire era grandioso. Ma non dimentichiamoci che Ginger Rogers faceva esattamente le stesse cose, ballando all’indietro e sui tacchi alti”. Questa considerazione, apparsa nel 1982 in una strip del fumettista americano Robert Thaves, viene spesso riproposta quando si vuol restituire il giusto rilievo a un talento femminile oscurato dal protagonismo maschile.

Ma siamo tutti un po’ Ginger Rogers quando leggiamo un testo o ascoltiamo un discorso (e a patto che lo facciamo bene, capendo quello che stiamo leggendo o ascoltando). Leggendo o ascoltando, infatti, danziamo sulle parole ricostruendo passo dopo passo la trama di un senso che è già chiaro all’autore, quello che guida le danze e sa quel che vuol dire e dove vuole arrivare. Ma che a noi chiaro ancora non è. Danziamo all’indietro.

La cosa più curiosa è che non ci rendiamo nemmeno conto della complessità di quanto stiamo combinando: sembra sempre che chi ascolta (o legge) non faccia niente, a parte prestare orecchio, o muovere lo sguardo lungo le righe di una pagina o di uno schermo.

Così, nella percezione comune, chi scrive o parla fa “tutto il lavoro”, e chi legge o ascolta svolge un ruolo passivo all’interno di quel meraviglioso, vorticoso, complicato e squisitamente umano (anche se non solo umano) processo che è la comunicazione.

Una faccenda faticosa e complicata
Perfino quando si dice della fatica di ascoltare, o di leggere, di norma ci si riferisce all’obbligo fisico di starsene immobili. Alla necessità di resistere all’impulso di contraddire o di mandare a quel paese qualcuno di cui non condividiamo le tesi. Al fatto che i caratteri a stampa sono troppo piccoli o che l’argomento è poco interessante o che, dài, è proprio un peccato starsene chiusi in una stanza mentre fuori c’è il sole.

Non è tutto qui.

Oggi c’è un’evidenza in più a confermare l’idea che comprendere le parole e i testi sia una faccenda faticosa e complicata: una delle sfide più complesse che l’intelligenza artificiale sta affrontando è proprio la comprensione del linguaggio umano, e questo non deriva certo dal fatto che i computer non hanno occhi oppure orecchie (i sensori di cui possono essere dotati funzionano anche meglio) o rapidità o memoria.

Ricostruiamo per sommi capi il processo del comprendere.

Ecco cosa succede quando leggiamo o ascoltiamo.

  • Diventiamo consapevoli di essere esposti a un “pacchetto di comunicazione”, focalizziamo la nostra attenzione e ci predisponiamo a ricevere il pacchetto.
  • I nostri organi di senso selezionano le serie di stimoli visivi o uditivi da trasmettere al cervello, escludendo per quanto possibile tutto quello che non c’entra.
  • Il cervello riconosce gli stimoli, li decodifica, li interpreta e li elabora connettendoli tra loro e confrontandoli con il contesto. Lo fa sia ricorrendo alla memoria a breve termine, che gli permette di tener presente il materiale su cui sta lavorando, sia ricorrendo alla memoria a lungo termine, che contiene esperienze, conoscenze (significato delle parole compreso), ricordi eccetera.
  • Così il cervello si costruisce una rappresentazione mentale dei contenuti del testo, facendo ipotesi, mettendo in gioco tutte le capacità logiche e provando ad anticipare i contenuti successivi.
  • Continua a fare tutto questo, in millesimi di secondo, mentre ulteriori nuovi stimoli sono recepiti, elaborati e integrati con i precedenti, il cui senso può risultare confermato o modificato.

A complicare ulteriormente il processo, c’è un altro fatto: i discorsi che ci facciamo sono intricati, ambigui, vaghi, lacunosi. Non tutte le informazioni necessarie alla comprensione sono contenute dentro ciascun testo, o nella situazione all’interno della quale il testo viene trasmesso.

E poi: non tutte le affermazioni (per esempio, le affermazioni sarcastiche) vanno intese in senso letterale. La chiave per una corretta interpretazione può stare in elementi minuscoli rispetto all’intero testo, come un ma o un però, o una virgola, o una pausa, o un cambiamento nel tono della voce. E spesso la chiave del senso del discorso se ne sta proprio altrove: in fatti e conoscenze implicite, ai quali nel testo non si fa nemmeno cenno.

Vado a recuperare un bellissimo libro di Tullio De Mauro, intitolato Capire le parole. La mia edizione è del 1994, le pagine sono ingiallite e fitte di sottolineature. De Mauro dice che “la forma del segno linguistico è siffatta da chiamare in causa, nel suo offrirsi a noi, l’intera capacità di intelligenza e di vita di cui siamo dotati”. Ehi, “tutta la nostra intelligenza”! Altro che lettura o ascolto passivo.

Un paio di pagine prima c’è la descrizione vivida della fatica che tutti noi, come lettori o ascoltatori, facciamo per capire quanto stiamo leggendo o ascoltando:

Il movimento della ricezione si sviluppa in modo simile a chi saggia ed esplora gli appigli per salire su un albero o, in montagna, su una paretina. Scegliamo e scorgiamo un appiglio o un appoggio, protendiamo una mano o un piede, saggiamo la sicurezza di presa o di appoggio e, se possiamo fidarci, scegliamo e proviamo un secondo appiglio, poi un terzo, un quarto, secondo un ordine che solo le circostanze suggeriscono, e proviamo a sollevarci e, se tutto va bene, andiamo allora alla ricerca di un quinto punto di appoggio e di presa, più in alto, abbandoniamo (proviamo ad abbandonare) uno dei primi quattro, saggiamo il nuovo, ci affidiamo a esso, sollevandoci.

Il guaio è che chi produce testi, detti o scritti, spesso tende a pensare a se stesso come protagonista unico e assoluto della comunicazione. Così, si preoccupa solo delle proprie prestazioni: di quanto farà bella figura o di quanto riuscirà a essere convincente, o di come sciorinerà il proprio fascino e il proprio sapere.

Ma, facendo questo, fatalmente considera le persone che lo leggono o lo ascoltano in termini di risultati personali da ottenere, e non in quanto alleati da sostenere e aiutare nel corso del complicato processo del trasmettersi idee.

Ed eccovi il motivo per il quale a molti (compresa la sottoscritta) può risultare piuttosto antipatico un oratore o un autore che esplicitamente si pavoneggia e si produce in inutili acrobazie linguistiche, tutto soddisfatto del proprio presunto protagonismo sulla scena.

“Ehi, bel tomo”, mi viene da dirgli, “datti una calmata e ricordati che non stai ballando in solitudine. Sto cercando di venirti dietro e capirti, ma tu mi fai fare più fatica del necessario, considerando che io vado all’indietro. E ho anche i tacchi”.

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