22 dicembre 2020 17:54

Non ricordo quando ho smesso di sentirmi a disagio perché qualcosa che mi piaceva diventava di tutti. A un certo punto ho smesso: le mie band potevano finire prime in classifica, fare qualcosa di nazional-imbarazzante e io, pur di partecipare a una catarsi generale, rinunciavo a un sentimento di possesso. Attorno a me c’era chi insisteva, e c’è chi insiste ancora, quando Alberto Ferrari dei Verdena va a X Factor, quando Manuel Agnelli si esibisce con gli Afterhours su quel palco e sposta la soglia di ciò che nella nostra adolescenza era immaginabile.

Un po’ invidio questa tensione e questo risentimento: affinché un tempio non si svuoti del tutto, anche se non ci sono più rituali, c’è bisogno di custodi che lo sorveglino. Solo che a un certo punto va come nelle storie di Stephen King: la gang di ragazzini si smembra, e piano piano dimentica; abbiamo cominciato ad ascoltare canzoni molto più alte o molto più basse e quella dorata medietà si è offuscata.

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Andare a sentire lo stesso gruppo quattordici volte all’anno non era un’ossessione: era la norma. La ripetizione dell’uguale dava struttura ai nostri sentimenti. Gli Afterhours erano uno di quei gruppi, e mentre cantavano Quello che non c’è in tv non è prevalso lo straniamento – indie e pop hanno sconfinato – né un piacere del tutto addomesticato: è prevalsa la mancanza di quella struttura, di un’intimità data dai concerti ripetuti e a prezzi accessibili che già languiva prima della pandemia. Ora c’è da sperare che la mancanza si trasformi in un ritorno. Rivuoi la scelta, rivuoi il controllo.

Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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