27 marzo 2015 15:27

Fantozzi compie quarant’anni (il Fantozzi dei film: quello dei libri è un po’ più vecchio). Questo è un estratto dal saggio di Claudio Giunta Diventare Fantozzi, che si trova nel libro Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo (Il Mulino 2013).

Paolo Villaggio interpreta il personaggio del ragionier Ugo Fantozzi, 1991. (Barbara Rombi Serra, Mondadori Portfolio)

Negli ultimi quarant’anni si è certamente potuto ridere di cose più intelligenti (anche se si è spesso riso di cose meno intelligenti), ma se si guarda semplicemente alla quantità, al numero, di niente e di nessuno si è riso più che di Fantozzi.

I residui di queste risate, oltre che ben fermi nella memoria, sono tutti visibili nel linguaggio che adoperano gli italiani nati tra gli anni cinquanta e gli ottanta. Quando Giorgia Meloni (classe 1977) dice in parlamento (29 aprile 2013) che c’è “un leggerissimo problema di copertura finanziaria”, quel leggerissimo pronunciato calcando sulla prima sillaba, lég-gerissimo, viene da Fantozzi (“ho una leggerissima sudorazione”). Quando Paola Cortellesi (classe 1973) annaspa nello sketch della doppiatrice (Magica Trippy), quell’annaspare – bocca spalancata, palpebre a mezz’asta – viene da Fantozzi. E poi merdaccia, coglionazzo, vadi, venghi, dichi, fogna di Calcutta, puccettone, salivazione azzerata, mani due spugne, fronte imperlata di sudore, la poltrona in pelle umana, la nuvola da impiegato, il direttore galattico, il megadirettore naturale, il Dir. Gen. Lup. Mann. Gran Farabut: tutto questo lessico della disperazione e del sopruso, il lessico usato e subito da chi sopravvive non solo ai piani bassi dell’organigramma aziendale ma ai piani bassi della vita, è diventato ormai – e stabilmente – lessico famigliare degli italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica.

Si può infatti trovare detestabile sia il linguaggio sia l’immaginario di Fantozzi, ma non si può non prendere atto della loro efficacia, un’efficacia superiore a quella di qualsiasi romanzo o saggio, e paragonabile soltanto o pochi o pochissimi prodotti della tv o del cinema contemporaneo. La corazzata Potëmkin di Villaggio è proverbiale come i tre anni di militare a Cuneo di Totò, ma è ancora più interclassista e interregionale (Totò, al nord, lo vedono, rivedono e citano a memoria soprattutto gli intellettuali); e “fantozziano”, “fare come Fantozzi”, sono diventate espressioni d’uso comune non in quanto designano uno stile o un modo di vedere il mondo (e insomma non merce per intellettuali come “felliniano” o “lynchano” o “kafkiano”) ma in quanto isolano, ritagliano e battezzano un determinato pezzo di mondo: la situazione fantozziana c’era già, solo che mancava la parola per definirla, e dunque nessuno l’aveva ancora messa bene a fuoco. Dal 1971 la parola c’è, e questo ha fatto sì che sia diventato impossibile tollerare senza vergogna – per sé o per altri – situazioni fantozziane.

Che cos’è dunque, in che consiste, una situazione fantozziana?

Da un lato, in una certa inadeguatezza rispetto alle richieste, esplicite o implicite, dell’ambiente nel quale ci si trova ad agire. In questo senso, Fantozzi è l’archetipo dell’uomo medio sensuale, quello che vorrebbe starsene in casa a guardare la partita ma viene trascinato dalla vita e dalle convenienze in posti impensati come il cineclub (al quale Fantozzi è culturalmente inadeguato) o il campo da tennis (al quale Fantozzi è fisicamente inadeguato) o un ricevimento elegante (al quale Fantozzi è inadeguato per ragioni di censo e di maniere). “Fantozziano” è, qui, il nome della frizione tra un uomo semplice e le infinite trappole che la vita moderna, o la vita tout court, semina sul suo cammino: fantozziano è il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con il mondo, e fantozziane le punizioni che il mondo gli infligge. Ecco per esempio una situazione fantozziana archetipica in poco più diventi parole, da Le sette perle del Mediterraneo:

‘Sarà la crociera del sole!’, annunciò trionfalmente Filini venerdì sera. La crociera del sole partì il giorno dell’unica inondazione di Genova in questo millennio.

Dall’altro lato, il mondo all’interno del quale Fantozzi agisce è il mondo di una grande azienda, perciò “fantozziano” è soprattutto il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con i suoi colleghi e con i suoi superiori. Proprio qui sta uno dei tratti più originali di Fantozzi. Perché nei film e nei libri sul lavoro girati e scritti prima di Fantozzi il nemico era facile da riconoscere: era il padrone, o era il meccanismo inumano della produzione, dinanzi al quale i lavoratori stavano, come si dice, tutti nella stessa barca. Ma Fantozzi vive al crepuscolo dell’età della produzione industriale. I suoi uffici sonnolenti, le sue gite aziendali, i suoi impiegati che giocano a battaglia navale annunciano già l’età del post-industriale, del terziario, e insomma di tutta la fuffa che per un certo numero di anni ha fatto credere un po’ a tutti che fosse davvero possibile restare la quinta o sesta potenza industriale liquidando le industrie. Fantozzi lavora già in un’azienda-ministero che non produce nulla. E da questo pseudo-lavoro (che cosa fa, veramente, Fantozzi?) ricava più mortificazione che stress.

Quando si pensa a libri che parlano del mondo del lavoro si pensa a Donnarumma all’assalto o a Memoriale, non a Fantozzi, il che è comprensibile, è anche giusto, perché quelle di Villaggio, a differenza di quelle di Ottieri o di Volponi, non sono rappresentazioni realistiche, sono parodie. Nel mondo reale non ci sono direttori che si fanno chiamare Dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Mann. o che hanno in ufficio poltrone in pelle umana e un acquario in cui nuotano gli ex dipendenti. Ma basta solo citare queste trovate deliziose per capire che Villaggio ha saputo darci qualcosa che prima non c’era: non la sottomissione e l’ossequio, che sono dei luoghi comuni dai tempi del Travet di Bersezio; e nemmeno l’aria irrespirabile dell’ufficio, la guerra silenziosa tra impiegati, che è già un motivo di Gogol’; ma qualcosa di simile a ciò che Bachtin ha chiamato lo “scoronamento dell’eroe”. Nei libri e nei film dedicati al lavoro i padroni si possono disprezzare o odiare come nemici, ma sono sempre nemici seri. Nei libri e nei film di Fantozzi, invece, i padroni e i dirigenti, prima di essere padroni e dirigenti, sono soprattutto degli imbecilli: gente ignorante, incapace, superstiziosa, meschina, puerile, piena di tic e di manie assurde, a cui nessuna persona sensata affiderebbe la direzione di una bocciofila, figurarsi un’azienda.

Fissando l’attenzione sui lati ridicoli del mondo del lavoro, Villaggio gli ha tolto un po’ di quell’aura sacrale che lo circondava nel giornalismo e nella letteratura engagée. Ha fatto per l’ufficio qualcosa di simile a ciò che Fellini ha fatto per la scuola in Amarcord. Sono parodie, certo, ma parodie che introducono nel ritratto un elemento di verità. Esiste un prototipo del capitano d’industria? E a chi assomiglia di più, al Ciro Nasàpeti delle Mosche del capitale o al Catellani di Fantozzi, il patito di biliardo che venera la vecchia madre? Al primo, certamente. Ma i Catellani esistono. Esiste la catellanità.

Salvo che per fugaci apparizioni (l’incontro col sovversivo Folagra), all’interno dell’azienda-ministero il conflitto di classe non c’è. C’è un conflitto umano, e sempre individuale, non con padroni ma con dirigenti che sono soprattutto capricciosi o pazzi: il patito del ciclismo, il maniaco della nautica, lo schiavo del gioco d’azzardo. Ma il conflitto che conta, quello che dà ai libri e ai film di Fantozzi la loro nota caratteristica di divertimento e di angoscia, è il perenne conflitto con i colleghi d’ufficio. Tra i propri pari – nei libri e nei film sul lavoro usciti prima di Fantozzi – si trovava solidarietà, conforto. Ma i propri pari erano di solito, protagonista essendo un operaio, altri operai. L’ufficio è tutta un’altra cosa, e Villaggio dice la verità sull’ufficio, sul modo in cui l’arrivismo, la vanità, la semplice onnipresente stupidità umana polverizzano ogni ipotesi di solidarietà tra persone che vivono insieme per anni e, dopo anni, si detestano (l’odioso Calboni), si tengono a distanza (con Filini: “Ma che fa, mi dà del tu? – Ma no, batti lei: è congiuntivo!”) o si usano per fare esercizio di Schadenfreude (”Quando comperava da Gino Sport faceva schifo, tanto era indifeso contro quel diabolico cialtrone, e c’era sempre una piccola folla di colleghi che mentre lui era nella tana del lupo si radunava fuori dalla vetrina a godersi lo spettacolo sghignazzando e dandosi di gomito”). Tutti orrendi, tutti colpevoli. È strano, ma è difficile pensare a qualcuno che sia riuscito a rappresentare meglio le miserie dei colletti bianchi, cioè le miserie della vita normale nell’Italia del post-boom, in quel momento fatato, inspiegabile, inimmaginabile oggi, in cui tutti lavoravano ma nessuno lavorava molto […].

Fin qui i libri. Il Fantozzi più popolare è però quello delle avventure di Fantozzi al cinema, e quanto a queste gli sceneggiatori hanno fatto buona parte del lavoro, perché da situazioni appena tratteggiate, stenografate nei libri hanno saputo ricavare scene comiche molto più ricche e articolate. Basta fare la prova, leggere il racconto della cena mondana dai conti Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, o quello del veglione di Capodanno, e poi paragonarli ai film. Il comico raccontato è sempre molto meno comico del comico rappresentato, ma qui non è tanto questione di comicità quanto di un vero e proprio cambio di genere: Salce, Benvenuti e De Bernardi hanno preso dei buoni spunti, delle buone gag, e le hanno trasformate in storie.

Il caso più interessante per un confronto è quello del celebre episodio in cui Fantozzi e i suoi colleghi vengono deportati al cineforum aziendale a rivedere per la centesima volta La corazzata Potëmkin (nel film ribattezzata pietosamente Kotiomkin), proprio la sera in cui si gioca Italia-Inghilterra a Wembley. L’esempio ha una versione scritta, nel Secondo tragico Fantozzi, e una versione cinematografica che è (sempre grazie ai co-sceneggiatori) più complessa, più amara e molto più divertente.

Nel passaggio dal libro al film l’essenziale non cambia, Fantozzi prende sempre i suoi 92 minuti d’applausi per aver definito il capolavoro di Ejzenštejn “una cagata pazzesca”, solo che cambiano il contesto e la motivazione. Come osserva Giacomo Manzoli (Da Ercole a Fantozzi, Carocci 2012), infatti, nel racconto Fantozzi fa la sua dichiarazione, la sua abiura, al Circolo Ferrovieri della sua città, di fronte a un gruppo di sciagurati come lui che vorrebbero tanto avere di meglio da fare, per esempio guardare un film con la Antonelli, o scopare (“Gli Altri – scrive Villaggio – sono andati a scopare! Fantozzi visto l’andamento delle serate tanti anni fa ha anche fatto domanda per iscriversi all’Albo degli Altri, ma senza speranza”), ma non riuscendoci s’inventano l’alibi pseudo-intellettuale del cinema d’essai. “Laddove il cinema popolare serve alla maggior parte dei concittadini a negoziare i comportamenti indotti dalla rivoluzione dei costumi, Fantozzi e soci [vanno] a vedere dei film in una sorta di rito di secondo grado, il cui scopo [è] negoziare una forma dignitosa per la propria esclusione dalla rivoluzione in atto”(Manzoli, benissimo).

Nel film, invece, Fantozzi e i suoi colleghi non scelgono di andare a vedere Ejzenštejn: sono obbligati a farlo dall’atroce professor Guidobaldo Maria Riccardelli, il quale è due cose insieme: un dirigente dell’azienda in cui Fantozzi lavora e un intellettuale cinefilo, cioè uno che sa che il Doktor del film è Caligari e non Caligaris e che pronuncia Griffith “come si pronuncia”, cioè in modo (per Fantozzi) inintelligibile.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Riccardelli è queste due cose, ma una è più importante dell’altra, e cioè una rappresenta il bersaglio principale, l’altra il bersaglio accessorio. Accessorio, a mio parere, è il dato politico, la relazione di classe, perché questa relazione, in Fantozzi, è sempre un a priori, è sempre data per scontata. Da un lato, Ricciardelli è solo uno dei tanti dirigenti autoritari e capricciosi che amareggiano la vita di Fantozzi e dei suoi colleghi: la sua mania per La corazzata Potëmkin vale quanto la mania per il ciclismo del visconte Còbram, o la mania per il biliardo del conte Catellani, o quella per il gioco d’azzardo del duca conte Semenzara. Anche lui, come gli altri, vuole che la sua mania si comunichi ai dipendenti: tutti devono vedere Ejzenštejn come tutti devono andare in bicicletta o devono saper giocare a stecca o a chemin de fer. È la solita protesta – inerte perché comica – contro le bizzarrie dei potenti. D’altro lato, però, la mania del Ricciardelli per il cinema d’arte non vale quanto la mania per il ciclismo o per il biliardo perché queste possono sì essere – come dice il visconte Còbram del ciclismo – “occupazioni che conferiscono grande lucidità sul lavoro”, ma non sono occupazioni intellettuali, non servono a migliorare la mente e lo spirito di chi le pratica.

Invece il professor Ricciardelli vuole precisamente questo: migliorare la mente e lo spirito dei suoi impiegati. Per questo non li costringe soltanto alla visione ma poi, dal palco, li stimola al dibattito. Ora, è possibile che qui il “bersaglio accessorio” siano quei tentativi di erudizione delle maestranze che qualche industriale-padre come Olivetti o qualche industria-madre come l’Italsider aveva cominciato a fare nel dopo guerra. In questo senso si può forse dire che “la lotta culturale [di Fantozzi e dei suoi colleghi ribelli] corrisponde, nella sostanza, a una lotta di classe” (Manzoli). Ma non insisterei troppo su questo aspetto. Perché Guidobaldo Maria Ricciardelli ci appare sempre e solo come un professore, prima durante un assurdo esame d’ammissione, poi come chairman dei dibattiti al cineforum. E infatti non ha né il corpo né l’atteggiamento del padrone: non ha la stazza imponente di Catellani o Semenzara né il profilo etereo, celeste del Megadirettore Bàlabam. Il professor Riccardelli ha proprio la faccia, l’acconciatura, le maniere, i tic del professore. E, al cineforum, anche gli stessi vestiti (la giacca di velluto con le toppe, il dolcevita marroncino) e le stesse reazioni compiaciute se gli allievi partecipano (“Stasera noto una tensione più vibrante: s’interessano, scambiano commenti…”).

Manzoli fa un’altra osservazione interessante: “La lettura estatica del Potëmkin e il suo utilizzo puramente retorico da parte del Riccardelli” sono anche oggettivamente fuorvianti, perché La corazzata Potëmkin è un film autenticamente popolare, una celebrazione delle rivolte che porteranno alla Rivoluzione d’ottobre. Ma proprio qui sta il punto. Mentre non si possono intellettualizzare il ciclismo, o il biliardo, o il gioco d’azzardo, si possono certamente intellettualizzare i film, se ne possono amplificare retoricamente i dettagli (l’occhio della madre, la carrozzella col bambino), li si può avvolgere di parole incomprensibili e di idee orecchiate in qualche saggio para-accademico (il “montaggio analoggico”, come lo pronuncia Calboni, viene da lì). Qui la protesta diventa seria: la protesta della natura, del corpo (la frittata di cipolle, il rutto libero, i film di Franco e Ciccio e di Laura Antonelli), contro i diktat della pseudo-cultura.

Il pezzo di Fantozzi sulla Corazzata Potëmkin non è rimasto nella memoria di tutti, non si è conservato nel tempo perché dice la verità su un film noioso (La corazzata Potëmkin non è noioso), o perché dice qualcosa di interessante sul rapporto tra chi ha il potere e chi non ce l’ha, ma perché inquadra bene, e con anticipo, i deliqui intellettualistici e il gergo degli addetti alla cultura (da una monografia di quegli anni a caso, su un film a caso: “Egli, nella preliminare indagine teorica, considera queste immagini segni indexicali. Ma il linguaggio filmico è composto da icone che rappresentano qualcosa attraverso un certo quoziente di somiglianza con la cosa rappresentata: è la funzione denotativa che varia, essendo l’immagine a così alta percentuale di rispecchiamento dell’oggetto che l’alone connotativo, cioè la quota di aggettivazione…”). È la stessa aria del tempo còlta da Moretti in Io sono un autarchico con la battuta “No, il dibattito no!”; ma Villaggio lo fa con due anni d’anticipo, e lo fa parlando a nome del Popolo, non a nome di un altro intellettuale autoironico. Controprova: il Popolo ha mandato a memoria la scena della Potëmkin, e l’adopera ancora adesso come arma contro gli intellettuali da cineforum.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it