15 novembre 2022 12:02

La morte della cantante brasiliana Gal Costa, avvenuta improvvisamente all’età di 77 anni il 9 novembre a São Paulo, ha bruscamente interrotto i festeggiamenti per la vittoria elettorale di Lula e per la fine dell’era Bolsonaro.

Costa non era stata solo una sostenitrice della rielezione di Lula, ma con la sua arte e la sua vita, il suo corpo e la sua voce è stata uno dei simboli di un Brasile postmoderno, multietnico, sessualmente fluido e fieramente rivoluzionario. Insieme a Caetano Veloso, Tom Zé e Gilberto Gil è stata, alla fine degli anni sessanta, una delle anime del movimento tropicalista e la sua musica si è andata evolvendo e liberando di pari passo con il Brasile, che fino al 1985 ha dovuto sopportare un’aspra dittatura militare.

“Dovevamo smantellare il Brasile dei nazionalisti”, scrive Caetano Veloso nel suo Verità tropicale, una lunga riflessione su quegli anni di lotta e di dissidenza artistica edita in Italia da Sur. “Andare fino in fondo e polverizzare l’immagine del Brasile carioca (…), il Brasile con il suo jeitinho e il suo carnevale”. Gal Costa ovviamente era nel cast, hippy e circense, che si era riunito, nel 1968, intorno al progetto Tropicália: ou panis et circencis, l’album manifesto di questa nuova música popular brasileira che, innestandosi, sulla bossa nova e sul samba autoctoni introduceva chiassosi e dissonanti elementi di rock, psichedelia e performance art.

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La carriera stellare di Gal Costa è nata da quella controcultura e, pur evolvendosi col tempo, non ha mai rinnegato quelle radici meticce e soprattutto quel coraggioso senso di sperimentazione e di spensierato sfottò al potere precostituito. Guardate il sorriso di Gal nelle foto di ogni epoca, da quelle dei primi sessanta alle ultime, scattate poco prima della sua morte: ha sempre lo stesso sorriso, grande, smagliante, bianchissimo. Ma non è mai un sorriso del tutto accomodante: ha sempre l’aria dello sberleffo, della sfida, a vent’anni come a settanta.

O sorriso do gato de Alice, uscito nel 1993, quando Costa aveva 48 anni ed era una delle principali star della musica brasiliana, è uno dei suoi lavori maturi più belli e raffinati. L’album, interamente prodotto dal chitarrista post punk statunitense naturalizzato brasiliano Arto Lindsay, tiene insieme tutte le anime di Gal Costa, le sue varie sfumature di Brasile, se vogliamo. Costa infatti era nata a Salvador de Bahia, poi ha abitato a Rio de Janeiro e a São Paulo, dove è morta, e nel Sorriso do gato de Alice (il sorriso sornione del gatto di Alice nel paese delle meraviglie, suggerito dalle sue labbra scarlatte in copertina) c’è la traccia sonora ed esistenziale di questi spostamenti. Ci sono il candomblé di Bahia (la religione sincretica importata dagli schiavi di cui Costa è sempre stata un’adepta), la bossa nova di Rio e il funk frenetico della São Paulo contemporanea.

In cerca d’identità, tra “una lingua atomica” e “parafulmini digitali”, per Gal Costa l’unica via per la liberazione è nel corpo, nella sensualità

Caetano scrive che se Bahia è il vecchio testamento della musica brasiliana, Rio è il nuovo. E, musicalmente, la Gal Costa dei primi anni novanta è sacerdotessa, iniziata ed esegeta di entrambi i libri sacri. La produzione di Arto Lindsay, una figura unica con un piede nella scena no wave della New York dei primi anni ottanta e l’altro nel Brasile tropicalista dove è cresciuto, aggiunge un tocco di sghemba modernità. Gli autori che scrivono per Gal in questo album sono i suoi numi tutelari di sempre: Caetano Veloso, Djavan, Gilberto Gil e Jorge Ben Jor. Nella splendida Gratitude, scritta in inglese per lei da Arto Lindsay e Caetano, c’è anche un’appena accennata interpolazione di In my solitude, scritta nel 1934 da Duke Ellington.

Le danze si aprono nel segno dell’ortodossia bahiana con Bahia minha preta (La mia nera Bahia), scritta da Caetano, inno a Salvador de Bahia, “regina dell’Atlantico” e “mitica fonte incantata”. È la Bahia magica, luogo originario del “vero” Brasile, di quello più profondo, ancestrale e premoderno. Nel secondo pezzo, Bumbo da Mangueira, siamo già nelle favelas di Rio, paracadutati in un carnevale immaginato con un po’ di malinconia, come luogo sospeso dalla storia: “Conosco questa grancassa, è la grancassa della Mangueira”, basta il ritmo di un tamburo e il traffico delle avenida sembra lontanissimo. E così via, spostandosi da un punto all’altro di questo Brasile incantato e immaginifico e definito dai colori vividi delle sue tradizioni musicali, fino all’afro funk elettrico di Alcohol, scritta da Jorge Ben Jor in cui Gal Costa chiede: “Perché non vieni a darmi un bacio, un bacio di amore e di desiderio?”. In un modo confuso, in cerca d’identità, tra “una lingua atomica” e “parafulmini digitali”, l’unica via per la liberazione è nel corpo, nella sensualità, in un bacio appunto d’amore e di desiderio.

Il tour di O sorriso do gato de Alice fece scandalo, nel 1993, proprio per il corpo di una Gal Costa quasi cinquantenne per alcuni critici troppo esposto. Lo spettacolo era diretto dal regista teatrale Gerald Thomas e vedeva Gal Costa entrare in scena a quattro zampe, come una gatta appunto. L’opposto dell’entrata della diva “divina, maravilhosa” come era lei in quegli anni. Anche il pubblico doveva passare, quasi gattonando, attraverso una griglia di fili di plastica azzurri prima di arrivare ai propri posti. Una provocazione, quasi a voler rovinare le acconciature delle signore eleganti della buona società di Rio e di São Paulo.

Quello che però non fu perdonato a Gal Costa fu il seno completamente scoperto durante la canzone Brasil, firmata dal cantautore carioca Cazuza. Costa portava una sorta di pigiama abbottonato solo all’altezza del collo: alzando teatralmente le braccia al momento dei ritornello scopriva tutto il petto. Diversi critici scrissero che Gal Costa si era venduta o che si era fatta sessualizzare da un regista senza scrupoli. L’idea che un’artista come lei, che aveva sempre fatto un uso teatrale e politico del proprio corpo e del proprio sesso, potesse aver scelto di mostrarsi nuda a 48 anni sfuggiva a molti. “Sono rimasta sorpresa di quante persone siano rimaste scioccate dal mio spettacolo”, ha commentato Gal Costa durante il programma televisivo Roda viva: “Era tutto collegato al tropicalismo, a quell’irriverenza che portavamo in scena. E anche il mio camminare sul palco come un gatto e non come una star. Anche questo, stranamente, ha dato fastidio: quello di cui ho paura è ristagnare. Sarei potuta uscire sul palco con un bel vestito e la band che suonava: una bella donna e basta. Invece a me piace prendere strade più difficili”.

Bonus track Gal Costa, nel 1978, fece una rarissima apparizione alla tv italiana, nel pionieristico varietà Stryx. Il filo conduttore della trasmissione, che ospitò star come Amanda Lear, Grace Jones, Patty Pravo e Asha Puthli, era la stregoneria declinata in balletti trasgressivi, un po’ scosciati e gustosamente camp, pieni di riferimenti a una cultura pop che a quell’epoca era impossibile vedere rappresentata in modo così vivido alla televisione.

Gal fece, ovviamente, un ingresso da regina, strega e sciamana della foresta amazzonica, il suo sorriso distante e un po’ ironico luminoso come un faro in quel circo di ghiaccio secco, gonnellini di rafia, penne e maschere vudù.

Gal Costa
O sorriso do gato de Alice
Rca, 1993

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