19 luglio 2022 14:13

Gli anni settanta in Brasile sono stati, nonostante la dittatura militare, un periodo di grande fermento musicale. Dopo il successo internazionale della bossa nova negli anni sessanta, la musica popolare brasiliana ha continuato ad aprirsi e ad assorbire elementi dall’Europa e dagli Stati Uniti. Non solo, la musica brasiliana ha anche cominciato a guardarsi dentro e a riconoscere con orgoglio le sue radici africane. È proprio il sincretismo, così tipico della cultura e della spiritualità brasiliane, che permette ai grandi musicisti di quel periodo di viaggiare, pur con i piedi piantati a Rio de Janeiro o a Salvador de Bahia, ovunque nel mondo: dalla swinging London alla San Francisco psichedelica, da Lisbona a Luanda, dalla Detroit della Motown alla New Orleans del blues delle origini. Quella che un tempo era l’antica rotta delle navi negriere diventa un crocevia di culture, di stili e di suoni. E il Brasile, enorme e meticcio paese-continente, diventa un laboratorio musicale permanente in cui tutto si mescola e tutto si evolve.

Jorge Ben, nato nel 1939 (e non nel 1942 o 1945 come insiste ancora lui) da padre lavoratore portuale brasiliano e da madre etiope, ha cominciato proprio negli anni sessanta con la bossa nova. La sua Mas que nada, nel 1963, ha contribuito a rendere popolarissimo il genere negli Stati Uniti e in Europa. All’inizio degli anni settanta però Ben si allontana sempre di più dalla chitarra acustica e dalla bossa nova per avvicinarsi alla chitarra elettrica e al rock: i suoi album Negro é lindo (“nero è bello”, 1971) e Solta o pavão (“Scatena il pavone”, 1975) cominciano a incorporare, su una base di samba, sempre più elementi di funk, di rock e di afro rock. Jorge Ben guardava lontano: a nord, verso James Brown e Sly and the Family Stone, e a est, verso il rock panafricano di Fela Kuti.

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África Brasil esce nel 1976 e già il titolo è un manifesto. Bastano le prime note, il riff memorabile di chitarra elettrica che apre Ponta de lança africano (Umbabarauma) prima che si lanci in un funk frastagliato e punteggiato da cori, per capire quanto siano lontani gli anni sessanta. Jorge Ben si sintonizza non solo con la musica afroamericana ma anche con i movimenti per i diritti civili e con il panafricanismo degli anni settanta. Ponta de lança africano (Umbabarauma) è una canzone sul calcio e forse la più bella canzone sullo sport mai realizzata. “Salta, corri, cadi e rialzati”, canta Jorge Ben sostenuto da un funk elettrizzante, “vibra e ringrazia: guarda, la città è vuota perché in questo splendido pomeriggio sono tutti qui a vederti giocare”. Le percussioni si rincorrono come su un campo di calcio: tamburelli, batteria, atabaque (un tamburo cilindrico simile alle conga cubane) e ovviamente la cuíca, un membranofono a frizione con quel tipico suono a metà tra la percussione e il richiamo di una scimmia o di un uccello tropicale. Il calciatore è un eroe popolare, un cavaliere leggendario, le sue gesta sono materia da poesia epica; quindi non è strano passare dal campo di calcio all’esoterismo di Hermes Trismegisto escriveu, dedicata al filosofo e mago egiziano Ermete Trismegisto che scrisse il suo “meraviglioso trattato ermetico con una punta di diamante su una lastra di smeraldo”. Il funk continua a pulsare e dal mito popolare del calciatore entriamo nella riscoperta, tipicamente afrofuturista, del misticismo egiziano come radice del più antico sapere africano. Misticismo ed erotismo si intrecciano anche in Taj Mahal, forse la canzone più famosa di África Brasil, che è costata a Rod Stewart una causa per plagio per averla copiata senza scrupoli nel ritornello di Da ya think I’m sexy?

In Xica da Silva si parla di una leggendaria eroina della tradizione afrobrasiliana, “a negra”, la schiava che diventò padrona della piantagione sposando un ricco fazendeiro bianco. E il riscatto della donna che, grazie alla sua bellezza e alla sua eleganza, trascese la schiavitù si riflette nella História de Jorge, un ragazzino che impara a volare: “Vola Jorge, vola!”, canta Ben, “vola lassù e prendimi una stella”. Un altro topos delle leggende e delle canzoni che si cantavano tra di loro gli schiavi incatenati: il volo come metafora della libertà. La mitologia africana e afrofuturista è piena di uomini e donne nere che sanno volare, che lasciano tutti a bocca aperta levitando nell’aria per fuggire via liberi come uccelli. Jorge, il bambino che sapeva volare, poteva essere un ufficiale della Mothership, la nave spaziale afrofuturista dei Parliament-Funkadelic, altra potente metafora della liberazione dei corpi e delle menti nere attraverso il funk.

La leggenda popolare del calcio continua a intrecciarsi con la tradizione afrobrasiliana, sul filo di un tappeto percussivo di impressionante varietà e ricchezza: in Cavaleiro do cavalo imaculado (“Il cavaliere dal cavallo immacolato”) le percussioni sono talmente dettagliate e minuziose da sembrare un quadro pointilliste, fatto di minuscole, precisissime pennellate che tutte insieme formano un’immagine completa. L’ultimo pezzo dell’album, África Brasil (Zumbi), è dedicato a Zumbi dos Palmares (1655-1695), il capo di una comunità di schiavi fuggiaschi che aveva fondato, nel Pernambuco, una comunità ribelle che si opponeva al governo coloniale portoghese. E Jorge Ben lo invoca come una divinità del candomblé. Prima descrive le piantagioni, da un lato la canna da zucchero dall’altro il caffè, e poi i signori seduti che guardano il cotone che viene raccolto da mani nere. Ma poi “Quando arriva Zumbi cosa accadrà?”, si chiede Ben. “È il signore della guerra e delle richieste, quando arriva Zumbi è Zumbi che comanda”.

África Brasil non ebbe un grande successo commerciale quando uscì: era troppo radicale per il pubblico europeo e statunitense che dalla musica brasiliana si aspettava essenzialmente un esotico escapismo. Ma col tempo è diventato un classico della musica brasiliana, grazie anche a David Byrne che, nel 1989, aprì la sua compilation Brazil classics: Beleza tropical volume 1 proprio con Punta de lança africano. Risentire oggi un capolavoro dimenticato come África Brasil ci fa capire quanto l’etichetta di “world music”, grazie alla quale l’album fu riscoperto negli anni novanta, sia in realtà angusta ed eurocentrica. Questa non è tanto “musica del mondo”, quanto un intero mondo raccontato in musica.

Jorge Ben
África Brasil
Philips, 1976

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