12 dicembre 2018 13:01

Il brutale omicidio del giornalista saudita residente negli Stati Uniti, Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, ha dominato l’informazione di tutto il mondo per almeno due mesi. Ma il suo caso non è isolato. Secondo l’International press institute, la violenza contro i giornalisti e l’impunità nei confronti di chi commette crimini contro di loro oggi sono “due delle principali minacce alla libertà dei mezzi di informazione nel mondo”.

I governi spesso usano sia il bastone sia la carota per tenere in riga i giornalisti. Possono ricompensarli quando seguono la linea ufficiale, tramite bustarelle o altre forme di corruzione. Mentre chi rifiuta di farsi comprare rischia di essere privato di diritti fondamentali (come il rinnovo del passaporto) o di vedersi distruggere la reputazione.

Alcuni regimi autoritari prendono esempio dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che definisce i giornalisti “nemici” che diffondono “notizie false”. Si tratta di una triste rottura con il passato per l’America, un paese che è stato un esempio positivo per i meccanismi formali e informali con cui ha protetto la libertà di stampa e per la sua tradizione di giornalismo investigativo.

Il carcere
La detenzione è un altro strumento usato dai regimi autoritari per mettere a tacere i giornalisti che osano rivelare la verità. In Egitto il giornalista di Al Jazeera Mahmoud Hussein è detenuto da due anni senza processo. Negli Emirati Arabi Uniti, il giornalista giordano Tayseer al Najjar sta scontando una condanna di tre anni, che sarà prolungata se la sua famiglia non sarà in grado di pagare una multa di 136mila dollari, ricevuta per un suo post su Facebook. In Turchia più di 150 giornalisti sono stati arrestati dopo il fallito colpo di stato nel luglio del 2016, rendendola così il paese con il più alto numero di giornalisti in prigione al mondo.

Gli omicidi
E poi ci sono i giornalisti che, per servire la verità, sono costretti all’estremo sacrificio della propria vita. Secondo alcune ricerche, quest’anno sono stati uccisi 73 giornalisti. Nel 2017 ci sono stati almeno cinque casi di omicidi ancora irrisolti in dodici paesi. Tra questi ci sono quelli messi in ginocchio dalla violenza come l’Iraq, la Somalia e la Siria, ma anche quelli democratici – o quasi – come il Brasile, l’India, il Messico, la Nigeria e la Russia.

Questi paesi – molti dei quali alleati degli Stati Uniti e di altri governi occidentali – spesso non hanno pagato alcun prezzo politico o diplomatico per le loro azioni. In questo senso l’omicidio di Khashoggi lancia un potente messaggio.

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman è generalmente considerato il mandante dell’omicidio. Eppure giornalisti e attivisti dei diritti umani dei paesi che beneficiano o dipendono dal sostegno finanziario dell’Arabia Saudita sono gentilmente – o non tanto gentilmente – invitati a tacere, mentre il principe è in visita nella regione per rimediare al danno d’immagine.

In molti paesi arabi, per esempio, qualsiasi azione o pubblicazione che possa danneggiare la reputazione di un “paese fratello o amico” è considerata un reato. E quindi, mentre gli attivisti tunisini per i diritti umani protestavano contro la recente visita di Bin Salman nel paese, molti attivisti arabi hanno dovuto astenersi dal farlo – nonostante la loro forte opposizione al leader saudita – per evitare di essere arrestati.

Perfino alcuni paesi occidentali non sono stati in grado di prendere posizione. Donald Trump, per esempio, ha dichiarato la sua vicinanza all’Arabia Saudita, stretta alleata degli Stati Uniti, soprattutto per non compromettere i consistenti contratti di vendita di armi che ha firmato con Riyadh.

I giornalisti palestinesi, che pure subiscono l’occupazione di Israele, sono stati tra i pochi a esprimersi apertamente. Più di 150 di loro hanno firmato una petizione su Aavaz, in cui affermano che l’omicidio di Khashoggi stabilisce “un pericoloso precedente che minaccia le vite dei giornalisti, il loro diritto a esprimersi liberamente, la libertà del lavoro giornalistico, e il diritto dei cittadini di essere informati”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale sudafricano Mail&Guardian.

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