19 luglio 2022 15:17

Viva l’indipendenza è il nuovo numero di Internazionale storia e racconta la fine dei grandi imperi coloniali attraverso commenti, reportage, analisi e cronache dalla stampa internazionale dell’epoca. Si può comprare in edicola, in libreria, su Amazon, Ibs, Feltrinelli, Hoepli e sul sito di Internazionale.

“Decolonizzare” è una parola che ricorre spesso di questi tempi. La s’invoca nei contesti più vari, dall’università ai musei alla toponomastica, in occasione di proteste e iniziative che promuovono i valori dell’antirazzismo, della giustizia sociale e della parità di genere. Per “decolonizzare” i leader dei paesi europei presentano scuse tardive, commissionano studi storici o decidono di restituire le opere d’arte trafugate nelle ex colonie.

In tutto questo non stupisce che possa risultare poco chiaro cos’è stata, in origine, la “decolonizzazione”, un termine usato nei libri di storia per descrivere uno dei processi più importanti del novecento, un processo così ampio e profondo da cambiare in maniera irreversibile l’assetto mondiale.

Nei quarant’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale i grandi imperi coloniali fondati dalle potenze europee – Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Portogallo – si sono sgretolati, in alcuni casi sono esplosi, e al loro posto sono nati nuovi stati indipendenti in Asia, in Africa e in America Centrale. Nel 1945 le Nazioni Unite erano formate da 51 paesi, nel 1960 ne contavano 99 e oggi sono 193 (e il comitato per la decolonizzazione dell’Onu ha ancora diciassette dossier da chiudere). In quei decenni alcuni paesi di nuova indipendenza e quelli dove i movimenti di liberazione erano impegnati in dure lotte per scacciare i colonialisti hanno sviluppato la consapevolezza di appartenere a un nuovo schieramento, quello che il demografo francese Alfred Sauvy chiamò “terzo mondo”.

L’immaginazione al potere
Gli articoli raccolti in questo volume – che sono stati selezionati per rappresentare una pluralità di voci, in un periodo compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1990 (l’anno in cui fu scarcerato Nelson Mandela in Sudafrica) – raccontano una serie di processi molto diversi, dall’indipendenza negoziata di India e Pakistan alla lotta armata contro le truppe francesi in Algeria alla metodica preparazione all’autogoverno in Guinea-Bissau. Allo stesso tempo, mostrano che l’indipendenza e la liberazione furono sì frutto di grandi imprese diplomatiche e militari dei popoli colonizzati, ma anche di un immenso sforzo d’immaginazione, sul piano politico e su quello culturale.

Se da un lato l’abitante del mondo colonizzato, come lamentava lo scrittore tunisino Albert Memmi, non era “un soggetto della storia” ma ne subiva il peso “spesso più crudelmente degli altri”, dall’altro nelle colonie grandi pensatori e politici carismatici (Gandhi, Kwame Nkrumah, Frantz Fanon, Patrice Lumumba, Amílcar Cabral) riflettevano sui modelli di stato e di società da adottare per creare un’alternativa a quello imperialista, basato sullo sfruttamento e sulle gerarchie razziali. Modelli che non sempre hanno dato i risultati sperati, ma che sono la testimonianza di una grande vitalità intellettuale, che oggi è giusto riscoprire.

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