20 agosto 2020 16:35

Cosa succederebbe se tutte le persone del mondo venissero ammucchiate in un unico, grande ascensore? Probabilmente finirebbero per incolparsi a vicenda del fastidio e del disagio, anziché arrabbiarsi con l’ascensore o, meglio, con i proprietari dell’ascensore che le hanno fatte entrare. Se prendi quattro miliardi di persone, tanti sono gli utenti di internet oggi, e le fai andare tutte in una manciata di siti (come Facebook o Google) il risultato è simile a quello dell’ascensore.

È di questo che parla Joanne McNeil in un saggio di quasi trecento pagine uscito negli Stati Uniti a fine febbraio e intitolato Lurking, un verbo che letteralmente significa “stare in agguato” ma che nel gergo della rete è usato per indicare chi osserva senza partecipare. “Ci hanno convinto che toccava a noi, agli utenti, modellare le nostre esperienze online”, scrive McNeil, secondo cui quell’affollamento ha condizionato un’intera generazione di utenti, rendendoli spesso osservatori passivi. Ma internet non è stata sempre così. C’è stato un tempo, tra la metà degli anni novanta e la metà dei duemila, in cui la rete era un posto molto diverso da com’è oggi. Per definirla si usavano espressioni come “autostrada dell’informazione” o “ciberspazio”.

Eppure non c’è nostalgia nel saggio di McNeil, perché la rete “non è mai stata pacifica, giusta, bella, anche se all’inizio era buona, e l’uso che se ne faceva era più fantasioso, meno ordinario e meno forzato”. Qualche traccia si trova ancora in Wikipedia, una piattaforma che rimane “globale, aperta, pluralistica, caotica e al tempo stesso basata su regole precise”, sostanzialmente anonima e non governata dalle logiche di mercato degli altri siti delle sue dimensioni. Una rete migliore e più equa, secondo McNeil, dovrebbe essere popolata da piccole comunità digitali provvisorie, democratiche, non orientate al profitto. E partire dalla premessa che ogni utente è una persona.

Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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