10 ottobre 2012 13:00

Lorenzo Pavolini, Tre fratelli magri

Fandango, 162 pagine, 13 euro

In una stagione che si annuncia non povera di buone opere, ma ricca al solito di troppe sciocchezze e di molte baruffe servili, Pavolini ci offre un nuovo libro-divagazione al limite del diario, che ci parla di sé con un misto di pudore e franchezza, battendo terreni frequentati raramente dalla nostra letteratura, almeno oggi. Ché di letteratura si tratta, e della migliore, di quell’arte di raccontare che per lui vuol dire ricordare e riflettere.

Tre fratelli borghesi e le loro diverse strade. E uno dei tre che s’interroga, lasciandosi andare all’associazione dei ricordi e alla divagazione – lui, lo scrittore – di fronte a quello che si è dato alla montagna e all’islam e a quello che si è dato al mare e cerca una figlia che lo fugge. E il loro ieri comune e il loro oggi diviso, e intorno la natura, il mondo.

E un passato che non è solo il loro ma anche dei loro. E lo zio morto in una scalata abruzzese il cui ricordo – fatto di documenti – sembra ossessionare l’autore più del presente e avere risposte meno ambigue ma non meno inquietanti: c’è chi le cerca, queste risposte, e sembra averle trovate e chi, l’autore, si contenta nell’incertezza, troppo accettando, forse, e tenendo a bada con scarsa convinzione i segni che lo sfiorano, intorno, indietro, in apparenza svagato, cercando di snodare i fili che compongono la vita e che continuano a stupire.

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