21 febbraio 2022 15:03

Gentile bibliopatologo,
sono una patita della carta, ma sono incuriosita dal digitale, però cè una cosa che mi frena: usando i lettori digitali non avrei la percezione fisica di “a che punto sono del libro”. Con il segnalibro o con l’angolo della pagina piegato posso vedere se sono arrivata a metà, se sto per concludere, o se mi aspetta ancora tanta lettura. E a seconda dei casi può essere una sensazione positiva o negativa, comunque rassicurante… Dovrei provare a lasciarmi andare all’indefinitezza e alla sorpresa?

– Giovanna (una lettrice che ha bisogno di certezze)

Cara Giovanna,
mi dici che hai bisogno di certezze, e nulla è più rassicurante della contemplazione dell’altrui stupidità. Ebbene, senti questa e commiserami. Vent’anni fa, in un periodo in cui mi capitava spesso di tumularmi nella Staatsbibliothek di Berlino, feci una scoperta entusiasmante nella caffetteria: la bevanda ideale per i pomeriggi di studio! La volevo anche in Italia, e mi sentivo come Hernán Cortés che importa i pomodori nel vecchio continente. La mia fidanzata di allora, che studiava con me, non fu altrettanto elettrizzata dalla scoperta. “È caffè solubile”, mi disse sbadigliando. “C’è già in Italia. Da decenni”.

La frustrazione dei miei sogni colonialistici e filantropici non mi impedì di ricavare dall’episodio una lezione più generale. Se mi avessero detto subito che era caffè solubile, ragionai, lo avrei bevuto con in mente il caffè espresso, e a ogni sorso lo avrei comparato al suo rivale. E probabilmente avrei dato lo stesso verdetto che danno in tanti: è una brodaglia. Bevendolo invece senza termini di paragone e senza aspettative, il caffè solubile mi conquistò. Lo stesso vale per gli ebook. Non dovremmo trattarli come libri di carta senza carta, ma come un’altra cosa. Il punto è: ti piace il sapore di quest’altra cosa? E verseresti un caffè espresso in un bicchierone di carta da caffè solubile?

Due conversioni
Per risolvere il problema di cui parli – non avere la percezione fisica di quanto ti manca alla fine – evidentemente non bastano le percentuali dell’avanzamento e il calcolo ipotetico dei minuti residui di lettura. Serve poter sentire sotto i polpastrelli uno spessore definito, che convertiamo mentalmente nella valuta del tempo: il tempo della vita (quanto ci resta da leggere) e il tempo del racconto (quanto resta da vivere ai personaggi del romanzo). Le due conversioni appartengono a ordini diversi, e la seconda ha a che fare con la struttura narrativa, con la nostra competenza di lettori, con le promesse e le aspettative di quel patto invisibile che il romanzo ci ha fatto firmare. Quando mancano poche pagine, la nostra mente entra in modalità “finale”, un po’ come quando siamo in aereo e il pilota annuncia l’inizio della discesa. Quelle pagine le leggeremo in modo diverso.

C’è un monologo di Jerry Seinfeld che trovo molto illuminante a questo proposito. Riguarda la televisione, ma si può estendere anche ai romanzi:

Sei immerso nella storia. Poi mancano tipo cinque minuti e improvvisamente realizzi: “Ehi, non possono farcela! Timmy è ancora intrappolato nella grotta, non c’è verso che arrivino a una conclusione in cinque minuti!”. Voglio dire, l’unica ragione per cui si guarda un programma televisivo è perché finisce. Se volessi una storia lunga e noiosa che non va da nessuna parte, ho già la mia vita.

Il romanzo, nella sua forma più canonica, a differenza delle nostre vite ha un inizio chiaro, una fine prevedibile e un senso. E per allineare i nostri tempi mentali ai tempi narrativi è utile poter soppesare le pagine che ci restano da leggere. Quando galleggiamo alla deriva tra le schermate di un libro digitale, questo piccolo rituale coltivato per secoli è messo un po’ a soqquadro. E se non riusciamo a toglierci dalla testa il paragone con i nostri libri di carta, è naturale che pensiamo: è una brodaglia. Come il caffè solubile, come la vita.

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