29 agosto 2017 10:24

Nel 2010 il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden giurava che gli Stati Uniti sarebbero stati “completamente fuori” dell’Afghanistan “entro il 2014, cascasse il mondo”. Nel 2014 Barack Obama dichiarava che alla fin fine avrebbe lasciato circa ottomila soldati americani e che avrebbe siglato un accordo con il nuovo presidente afgano, Ashraf Ghani, per prolungare la loro permanenza “fino alla fine del 2024 e anche oltre”.

Donald Trump era contrario su tutta la linea. Nel 2013 twittava: “Le nostre truppe vengono uccise dagli afgani che noi stessi addestriamo e in quel paese sprechiamo miliardi di dollari. È una cosa insensata! Ricostruiamo gli Stati Uniti”. A quanto pare però adesso i generali lo hanno condotto a più miti consigli con quella che viene ritenuta saggezza militare.

Il 21 agosto Trump ha annunciato che manderà altri soldati statunitensi in Afghanistan, probabilmente quattromila, e che ci resteranno per tutto il tempo necessario. Ha anche una nuova, furbissima strategia: “Non si tratta più di ricostruire una nazione. Uccideremo i terroristi” (scommetto che George W. Bush e Barack Obama vorrebbero tanto averci pensato anche loro).

A questo punto è forte la tentazione di tirare fuori il vecchio adagio: “La definizione di follia è continuare a fare la stessa cosa sperando in un risultato diverso”. Trump in effetti sta proponendo ancora una volta le stesse cose, nell’evidente speranza di ottenere risultati diversi.

Gli afgani più istruiti sono terrorizzati dal ritorno dei taliban, ma rappresentano una piccola parte della popolazione

Il picco della presenza statunitense in Afghanistan c’è stato nel 2010-2011 con centomila soldati. Se all’epoca questo non è stato sufficiente per ottenere la vittoria, perché mai dovrebbe esserlo oggi un incremento delle truppe da 8.500 a 12.500?

Né l’Unione Sovietica né l’impero britannico al suo apice hanno avuto la meglio sulla resistenza afgana, e gli ultimi sedici anni ci dimostrano che nemmeno gli Stati Uniti ce l’hanno fatta.

Britannici e russi sono riusciti a mantenere una presenza militare nel paese finché sono stati disposti ad accettare le vittime che essa comportava, ma in nessuno dei due casi il regime installato al potere è sopravvissuto a lungo dopo la loro partenza. A prescindere dai loro meriti, quei regimi erano inevitabilmente compromessi dal sostegno di una potenza straniera.

Nazionalismo islamista
Adesso gli Stati Uniti si trovano esattamente nella stessa situazione. Il governo di Ashraf Ghani non è certamente il peggiore che gli afgani abbiano dovuto sopportare, ma agli occhi dei nazionalisti è privo di legittimità perché dipende da militari e da soldi stranieri.

Poiché quelle truppe straniere sono diminuite, passando dalle 140mila unità nel 2011 (compresi i soldati non americani provenienti da una dozzina di altri paesi occidentali) alle 13.400 di oggi, il governo afgano ha perso il controllo del 40 per cento circa del paese. E il processo sta accelerando sempre di più: un terzo di questo territorio è andato perduto solo nell’ultimo anno.

La provincia di Helmand, che le truppe occidentali hanno sottratto ai taliban tra il 2006 e il 2010 al prezzo di 600 morti, è ormai tornata quasi interamente sotto il controllo dei taliban, e le province di Uruzgan e di Kandahar saranno le prossime. Perfino la capitale Kabul, che era rimasta in una sorta di bolla di sicurezza, è ormai regolarmente bersaglio di attentati suicidi: a maggio almeno 150 persone sono state uccise in una violenta esplosione, altre 20 persone sono state uccise a giugno durante un funerale e altre 35 a luglio, a causa dell’esplosione di un autobus.

Ma cosa accadrebbe se tutte le truppe straniere dovessero andarsene e i taliban andassero di nuovo al potere, come già successo tra il 1996 e il 2001? Il paese diventerebbe un covo di terroristi? Vi si concepirebbero altri piani come quello che ha condotto all’11 settembre? Probabilmente no.

I taliban sono sostanzialmente un gruppo di matrice nazionalista. La loro versione estremamente conservatrice dell’islam non era ritenuta un problema da Washington quando il gruppo combatteva contro i russi e non lo è oggi per la maggior parte dei maschi afgani che vivono in zone rurali (nessuno lo chiede alle donne).

L’interesse di Trump
Gli afgani più urbanizzati e istruiti sono naturalmente terrorizzati dal ritorno dei taliban, ma rappresentano una piccola parte della popolazione. E molti stranieri ritengono i taliban il male minore rispetto al regime appoggiato dagli Stati Uniti. Come dichiarava all’inizio del 2016 l’inviato speciale russo in Afghanistan Zamir Kabulov: “Gli interessi dei taliban coincidono sostanzialmente con i nostri”.

Quello che intendeva dire è che i taliban non hanno alcun interesse nella politica estera. Non sognano un impero islamico globale; vogliono solo governare l’Afghanistan. A dire il vero, sono i principali rivali sul piano militare dei jihadisti del gruppo Stato islamico e di Al Qaeda, che al momento stanno cercando di stabilire una presenza nel paese, e nel complesso stanno vincendo quelle piccole guerre private.

E l’11 settembre? Ci sono buone ragioni per sospettare che Osama bin Laden e i suoi compari in maggioranza arabi di Al Qaeda, all’epoca ospiti dei taliban, non avessero avvertito questi ultimi dell’intenzione di portare a termine quell’atrocità, poiché era del tutto evidente che essa avrebbe provocato un’invasione americana e il rovesciamento del regime.

Naturalmente poche di queste riflessioni saranno venute in mente a Donald Trump, ma questo significa che davvero pensa di poterla spuntare contro i taliban? Non necessariamente.

Forse, come Obama, Trump ha semplicemente deciso di non voler assistere all’inevitabile crollo del regime sostenuto dall’occidente in Afghanistan sotto la sua amministrazione. Si sta limitando a impegnare un numero di soldati americani sufficienti a farlo durare ancora per un po’.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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