15 giugno 2017 10:10

Tra tutti i punti caldi del mondo ce n’è uno sempre in cima alla lista: l’Afghanistan. In questo momento Donald Trump sta subendo le pressioni dei suoi generali per inviare rinforzi in questo paese, l’impegno militare più longevo degli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale.

A un certo punto Barack Obama aveva ridotto gli effettivi militari in Afghanistan, un tempo superiori a centomila soldati, e sperava di ritirarli completamente prima di lasciare il potere. Non solo non c’è riuscito, ma le condizioni di sicurezza sono tali che il suo successore dovrà rapidamente decidere se impegnarsi di nuovo nella guerra o lasciare campo libero ai taliban, che controllano ormai quasi metà del paese e circa un terzo della popolazione.

La decisione non è facile. Ogni opzione ha i suoi pro e i suoi contro.

Inviare delle truppe supplementari è possibile, ma con quale strategia? Tutti a Washington, a cominciare dai generali, sanno che per il conflitto afgano non è possibile una soluzione solo militare; ma allora in nome di quale strategia dovrebbe essere fatta questa “surge”, questo nuovo impegno militare? Per ora non ci sono risposte né al Pentagono né alla Casa Bianca.

Ma non rafforzare gli effettivi americani contro i taliban e contro i gruppi jihadisti come Al Qaeda e lo Stato islamico (Is) presenti nel paese rischia di far cadere il regime di Kabul. E quale presidente statunitense è oggi pronto ad assumersi il rischio politico di “perdere” Kabul?

La guerra in Afghanistan è la storia di una sconfitta annunciata cominciata con una vittoria lampo nel 2001, in occasione dell’intervento deciso dopo gli attentati dell’11 settembre. I taliban e i loro alleati jihadisti di Al Qaeda erano stati cacciati da Kabul e si erano rifugiati in parte nelle zone tribali del Pakistan, dove avevano creato le loro zone sicure.

Sedici anni e 800 miliardi di dollari dopo (sì, avete letto bene, 800 miliardi di dollari spesi, cioè 713 miliardi di euro), con centinaia di migliaia di vite umane perse – afgane, statunitensi, canadesi, tedesche, francesi e così via – lo stallo è totale. E questa situazione continua a costare al tesoro statunitense tre miliardi di dollari al mese.

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L’attentato di Kabul del 31 maggio, quando un camion bomba è esploso nel quartiere più controllato della capitale che ospita il palazzo presidenziale, i ministeri, le ambasciate straniere, facendo quasi 150 morti e centinaia di feriti, ha mostrato la vulnerabilità del regime afgano e dei suoi “sponsor” occidentali.

L’attentato ha provocato la rabbia degli abitanti di Kabul, che hanno manifestato nel centro della città contro l’incapacità del potere di proteggerli. L’esercito ha aperto il fuoco sui manifestanti uccidendo cinque persone e rendendo ancora più tragica la situazione.

Lo stato maggiore chiede l’invio di almeno altri cinquemila uomini in Afghanistan, che dovrebbero aggiungersi agli 8.400 soldati presenti sul posto, ai quali bisogna aggiungere alcune centinaia di membri delle forze speciali. Anche altri paesi hanno degli istruttori presso l’esercito afgano.

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La richiesta di rinforzi è sul tavolo di Donald Trump, che dal suo arrivo alla Casa Bianca il 20 gennaio non si è molto sbilanciato sull’Afghanistan. Prima di essere eletto, Trump si era mostrato molto scettico nei confronti delle operazioni militari all’estero ed era stato critico sull’invasione in Iraq dopo averla in un primo tempo sostenuta.

Ma dopo il suo arrivo alla Casa Bianca, il nuovo presidente si è mostrato meno categorico, non esitando a bombardare una base aerea siriana dopo l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar al Assad, a utilizzare le forze speciali in diversi fronti o, ancora, ad armare i curdi siriani per permettere l’offensiva su Raqqa.

Che cosa deciderà sull’Afghanistan? Un elemento di risposta va cercato nel ruolo particolare svolto dai generali della sua amministrazione: Jim Mattis ministro della difesa, John Kelly segretario alla sicurezza interna e H.R. McMaster consigliere per la sicurezza nazionale.

I generali Mattis e McMaster hanno combattuto in Afghanistan e non sono disposti ad abbandonare questo paese – e i duemila morti americani dal 2001. Ma di fronte hanno Steve Bannon, il consigliere speciale di Trump ed ex giornalista del sito di estrema destra Breitbart, che è contrario a queste avventure all’estero.

Non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il cimitero degli imperi

La difficoltà della decisione è che, come faceva notare di recente un editoriale del New York Times, più nessuno ormai è capace di definire una strategia “vittoriosa” in Afghanistan. E neppure quale differenza potrebbero fare nella situazione attuale tre o cinquemila uomini, se non guadagnare un po’ di tempo.

Nessuno vuole vedere in faccia una sconfitta sempre più evidente. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”.

Questa sconfitta è ancora più difficile da riconoscere in quanto gli occidentali non possono accettare di vedere l’Afghanistan ridiventare il santuario dei jihadisti di tutto il mondo, come era stato per gli uomini di Osama bin Laden fino al 2001. Anche se, crudele ironia della sorte, quegli stessi jihadisti avevano inizialmente beneficiato della generosità americana quando combattevano l’esercito sovietico.

Inoltre, le recenti vittorie ottenute a duro prezzo a Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria) potrebbero spingere “l’internazionale jihadista” proprio verso le terre afgane. Uno spostamento del centro di gravità che potrebbe accompagnare l’espansione delle operazioni jihadiste in Asia, come si è potuto constatare di recente nelle Filippine e in Bangladesh.

In questa logica, i rinforzi americani limitati avrebbero il vantaggio di mantenere l’Afghanistan in una situazione di equilibrio instabile, impedendo la vittoria totale dei taliban, senza però permettere la loro sconfitta completa.

Questa situazione prolungherebbe inoltre il calvario delle popolazioni afgane, intrappolate tra le varie fazioni in guerra, le pressioni integraliste, le ambizioni geopolitiche dei vicini e delle grandi potenze e uno stato impotente e spesso inesistente.

Alcuni esperti raccomandano come unico mezzo per rompere il circolo vizioso della violenza una soluzione politica negoziata con i taliban, e alcuni tentativi sono stati già fatti ma senza risultato. Ma quale sarebbe il prezzo da pagare per questa pace con i taliban? Il ricordo del loro passaggio al potere è ancora molto vivo tra le donne e tra tutti coloro che non vogliono vivere in un regime oscurantista. Siamo lontani dall’entrata delle liberatrici forze statunitensi a Kabul nel 2001, che aveva portato delle speranze mai realizzate.

Missione impossbile
Un recente (e molto brutto) film di Hollywood, War machine, con Brad Pitt, racconta la storia vera del passaggio in Afghanistan del generale Stanley McChrystal, comandante delle forze della Nato in questo paese dal 2009 al 2010. McChrystal è stato “fatto fuori” dopo un articolo della rivista Rolling Stone che raccontava come il generale e i suoi collaboratori criticassero apertamente il loro “comandante in capo” Obama. Il film è l’adattamento del libro del giornalista di Rolling Stone Michael Hastings: Pazzi di guerra. L’incredibile storia del generale McChrystal e dell’intervento americano in Afghanistan.

Questa satira grottesca offre però alcuni spunti che illustrano bene il disorientamento delle truppe americane che conducono una guerra impossibile in questo paese. In una scena si vede infatti il generale parlare con un soldato che gli dice di non capire la missione, di non riuscire a distinguere un afgano “amico” da un afgano “nemico” e che, nel dubbio preferisce sparare per salvarsi la vita.

McChrystal arrivava in Afghanistan dopo il successo della sua strategia di surge in Iraq, ottenuta grazie all’invio di rinforzi importanti per un periodo limitato così da cambiare i rapporti di forza. Ma anche il generale più prestigioso ha finito per raggiungere il “cimitero degli invasori” di cui parlava Perrin senza aver cambiato di molto la situazione.

Questo dovrebbe far riflettere Trump nel momento della decisione, una delle più importanti e cariche di conseguenze dal suo arrivo alla Casa Bianca.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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