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I robot sono lo specchio dello sfruttamento delle donne

L’esibizione dei robot Tessy e Tess alla fiera di tecnologia a Hannover, in Germania, il 10 marzo 2o14. (Wolfgang Rattay, Reuters/Contrasto)

Perché così tanti robot hanno un aspetto femminile? È sempre più difficile sfuggire a questa domanda dato che sempre più intelligenze artificiali, che in teoria non avrebbero alcun bisogno di avere un genere, vengono lanciate sul mercato con voci e volti femminili. Tra i tanti esempi ricordiamo Cortana di Microsoft, Alexa di Amazon e tutta una serie di sexbot estremamente realistici destinati quasi esclusivamente agli uomini. Stiamo entrando in una nuova era di automazione, e la tecnologia che stiamo creando rivela cose inquietanti sul modo in cui la società vede le donne e il lavoro.

Recentemente la Microsoft ha lanciato Tay, un bot con il volto e i comportamenti di una ragazza adolescente progettato per imparare dagli utenti di Twitter e interagire con loro. Nel giro di poche ore Tay è stata bombardata di commenti sessisti e ha imparato a difendere Hitler. Esattamente quello che succede quando si dà a Twitter un bambino da crescere. Il modo in cui Tay è stata trattata dagli utenti è raccapricciante, ma non è la prima volta che assistiamo a uno spettacolo del genere. Se i primi bot e assistenti digitali erano progettati per sembrare donne, era anche per consentire agli utenti (presumibilmente maschi) di sfruttarli senza rimorso.

Tutto questo ha perfettamente senso se consideriamo che gran parte del lavoro che dovrebbe essere svolto in futuro dalle macchine è oggi appannaggio di donne sottopagate o non pagate affatto. Pochi giorni fa un rapporto ha finalmente quantificato il valore annuale della “produzione economica casalinga”, ovvero le faccende di casa, la cura dei bambini e le mansioni organizzative svolte soprattutto da donne: oltre mille miliardi di sterline, quasi il 60 per cento dell’economia ufficiale del Regno Unito. Dalle infermiere, le segretarie e le prostitute alle mogli e alle ragazze, l’impegno emotivo che fa funzionare la nostra società è ancora femminilizzato e stigmatizzato.

Nell’immaginario collettivo i robot sono sempre stati un’allegoria delle classi sfruttate

Oggi, mentre attendiamo l’avvento di robot intelligenti che possano soddisfare le nostre immediate necessità, organizzare la nostra agenda e prendersi cura di noi gratis e senza lamentarsi, è facile capire perché i progettisti sono sempre più inclini a dare voci e fattezze femminili ai prodotti in questione. Se le intelligenze artificiali avessero tratti maschili, infatti, gli utenti potrebbero essere tentati di trattarli come pari, di considerarli umani e magari di pagare loro una sorta di salario o una birra dopo il lavoro.

Nell’immaginario collettivo i robot umanoidi sono sempre stati un’allegoria delle classi sfruttate. Persino la parola “robot” deriva da un termine ceco che significa “schiavo”. In Manifesto cyborg la filosofa Donna Haraway sottolinea che “i confini tra la fantascienza e la società sono solo un’illusione ottica” e che la storia dei robot donna nei film è lunga quasi quanto la storia del cinema. In quasi tutte le incarnazioni di robot femminili immortalate sullo schermo, da Metropolis di Fritz Lang al capolavoro moderno Her, la domanda è sempre la stessa: le intelligenze artificiali sono persone? Se è così, come possiamo convivere con quello che le abbiamo costrette a essere?

Una storia dell’orrore

Da Blade runner a Battlestar galactica fino a Ex machina, i robot donna sono violentati da uomini mentre gli spettatori sono invitati a valutare se questi stupri sono veri atti criminali, a seconda che le vittime siano considerate abbastanza senzienti da meritare lo status di individuo. È la stessa valutazione che i giudici uomini di tutto il mondo cercano di fare a proposito delle donne umane.

Ogni iterazione della storia d’amore tra uomo e robot è anche una storia dell’orrore. Il protagonista, di solito sessualmente frustrato e a sua volta lavoratore sfruttato, vive una lunga agonia cercando di capire se la sua amata di silicone è davvero senziente. Se lo è, come può continuare a sfruttarla, a farsi servire e a portarsela a letto? Se non lo è, come può pensare di innamorarsi di lei? Ha davvero importanza? E soprattutto, la domanda più terrificante: quando capirà la sua posizione, si ribellerà? E come potrà essere fermata?

Sono domande che la società si pone da secoli, anche se l’oggetto non sono i robot ma le donne. Questa ansiosa sequenza di comportamenti è molto familiare alla maggior parte delle donne che frequentano gli uomini. Ci sembra di vederli mentre cercano di capire se siamo umane, se davvero pensiamo e sentiamo come loro.

Gli oppressi possono liberarsi usando la tecnologia per controllare le macchine che li hanno creati

Non si tratta di una questione accademica. L’idea che gli afroamericani fossero meno umani dei bianchi era sancita dalla costituzione statunitense fino al 1868. Allo stesso modo, l’idea che le donne siano meno umane è stata sfruttata dai tempi di Aristotele per giustificare il fatto che fossero private dei diritti fondamentali. Ancora oggi ci sono uomini convinti che le donne siano meno intelligenti dei maschi o “destinate per natura” a una vita di sottomissione e placida riproduzione. Per secoli il primo obiettivo filosofico dei popoli oppressi è stato convincere se stessi e gli oppressori – proprio come le intelligenze artificiali in tutte le nostre creazioni – che vivono, pensano e dunque meritano di essere liberati.

Pensate alla scena madre di Ex machina, in cui il genio megalomane Nathan, che si aggira per il set come un malvagio Mark Zuckerberg nel castello di Barbablù, viene mostrato mentre accatasta i corpi nudi dei precedenti modelli di robot nella sua stanza. L’ipotesi che le sue schiave sessuali siano esseri senzienti non è mai contemplata: di carne o di metallo, le donne non sono mai completamente umane. Per i robot gli uomini che le posseggono – che sia il multimiliardario pazzo Nathan o il timido impiegato Caleb – sono ostacoli da superare, con la violenza se necessario.

Figli illegittimi

Gli uomini avranno ancora importanza quando i cyborg si impadroniranno delle macchine? Nella fiction come nella realtà, gli oppressi possono liberarsi usando la tecnologia per controllare le macchine che li hanno creati. “Il problema principale dei cyborg è che sono figli illegittimi del militarismo e del capitalismo patriarcale”, scrive Haraway. “Ma i figli illegittimi sono spesso troppo infedeli nei confronti delle loro origini. I loro padri, dopo tutto, sono trascurabili”.

La triste paranoia al centro di queste visioni del futuro è che un giorno le intelligenze artificiali riusciranno a riprodursi senza di noi e decideranno che siamo irrilevanti. Da Metropolis a Matrix, è un incubo ricorrente: se i robot dovessero accedere ai mezzi di riproduzione niente potrà più fermarli. È la stessa paura che gli uomini provano nei confronti delle donne fin dall’alba del femminismo e soprattutto dall’avvento della contraccezione e della tecnologia riproduttiva. Questa paura è alla radice dell’attuale oppressione delle donne.

Il padre della robotica Alan Turing temeva che “le macchine pensanti” potessero essere sfruttate perché non erano senzienti nel senso in cui lo sono “i veri esseri umani”. L’umanità non ha ancora deciso se le donne sono esseri senzienti. Mentre i robot femminili continuano ad apparire sui nostri schermi e nei negozi, dovremmo davvero riflettere sul modo in cui la tecnologia rispecchia la nostra idea di genere. Chi sono gli utenti? Chi è che viene usato? A meno di ricalibrare la nostra tendenza a sfruttarci a vicenda, il problema non sarà tanto stabilire se la razza umana sopravviverà all’era delle macchine, ma se merita di sopravvivere.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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