28 maggio 2013 18:42

A Cannes, qualche giorno fa, mi sono trovato nel foyer della sala Debussy subito dopo una proiezione con un manipolo di altri giornalisti. Qualcuno di noi scambiava opinioni sul film appena visto, ma la maggior parte, me incluso, era intenta a twittare delle reazioni a caldo. Finita la twitterata collettiva, un collega inglese che segue il festival da tanti anni si è rivolto a me dicendo: “E pensare che fino a solo sette o otto anni fa l’unico impegno che avevo a Cannes era scrivere tre servizi: uno di apertura, un progress report a metà del festival, e un resoconto conclusivo”.

Personalmente credo che Twitter sia uno strumento utile per un corrispondente che si trova a raccontare un festival del cinema o un evento sportivo, una crisi politica o una guerra. Permette di seguire l’evolversi della situazione, comunicare drammi, notizie, entusiasmi, delusioni e battute in tempo reale. Inoltre è compatibile con i tempi brevi a disposizione tra un film/partita/risultato elettorale/bombardamento e l’altro, e non toglie l’appetito per quell’analisi ragionata e approfondita rappresentata dell’articolo, la recensione o la cronaca di un incontro (anche se, in campo culturale e forse non solo, c’è un pericolo in agguato: la reazione a caldo non sempre coincide con quella maturata dopo un paio d’ore o di giorni. Mi è successo con il film sui vampiri di Jim Jarmusch, Only lovers left alive, che quando ho twittato la mia recensione con #leecrit sul live tweeting di Internazionale ho definito divertente ma minore; ma da quel momento mi si sta aprendo nella testa come una cozza).

Capisco la nostalgia del collega inglese per un tempo in cui il lavoro di un giornalista cartaceo era più facile. Ma non è il fatto che il giornalismo stia diventando sempre più multimediale a preoccuparmi. Il problema è come viene fatto. Se un giornalista con formazione cartacea è costretto a diventare cronista-fotografo-cameraman tuttofare, c’è il rischio che la qualità dei suoi servizi sia diluita nel nome di una richiesta insaziabile di

content. Per fare un esempio: un critico acuto come Peter Bradshaw del Guardian si è ridotto a fare, con inquadratura sghemba e immagini sfocate, una recensione (ironica, naturalmente) delle varie quotazioni del festival 2013 nel suo video-diario del primo giorno.

Esempi positivi. Oggi, invece, mi sono imbattuto in due esempi virtuosi di giornalismo multimediale. Due dimostrazioni che non sempre la parola multimedia deve per forza significare quegli specchietti per le allodole che un mio amico giornalista italiano chiama “cazzilli”. I cazzilli sono quelle immagini, sui colonnini laterali dei quotidiani online, che mostrano gli errori di portieri norvegesi, ragazzi sauditi che cambiano due ruote di una macchina che sta viaggiando inclinata sulle altre due ruote, invecchiamenti fotoshop di giovani star eccetera.

Il primo esempio virtuoso è un’inchiesta di Repubblica sulla violenza contro le donne in Italia. In realtà il livello di multimedialità è piuttosto rudimentale: si tratta di un alternarsi di articoli e video, e mancano le infografiche. Ma l’inchiesta è ben articolata, e vedere un marito violento pentito confessarsi in video e tutt’altra cosa che leggere un’intervista. Aggiunge delle sfumature emotive e morali che solo la presa diretta può cogliere.

Il secondo esempio di multimedialità virtuosa è della stessa testata del videoblog scarso citato prima: il Guardian. Prodotto per accompagnare il lancio dell’edizione australiana del giornale online, svela il contesto di una serie di foto, riprodotte in tutto il mondo nel gennaio scorso, di una famiglia della Tasmania che durante un incendio boschivo devastante ha cercato rifugio nell’acqua sotto un pontile.

Vi ricordate della nonna con i cinque nipotini che si aiutano a tenersi a galla mentre il fuoco consuma tutto intorno? Integrando foto, video e testo in modo innovativo – per esempio quando lo sfondo fotografico di un articolo comincia a muoversi, diventando video – il servizio del Guardian illumina quello che è successo prima, durante e dopo la famosa serie di foto. Spiega il contesto ecologico e climatico degli incendi boschivi sempre più comuni in Australia e colloca la storia di una famiglia che scopriamo di essere colta, affettuosa, sensibile, nel contesto di una società che si sta interrogando sul proprio futuro in un territorio che a causa del riscaldamento globale sta diventando sempre di più una tierra del fuego.

Per molti di noi, quella foto della famiglia australiana sotto il pontile in una tempesta di fuoco era forse l’equivalente di un cazzillo, una cosa che ci provoca un’emozione per qualche secondo prima di passare al gattino che russa o a un video girato con uno smartphone che mostra una gru che casca su un palazzo in Russia. Ma il bel servizio del Guardian, e anche quello di Repubblica sulla violenza contro le donne, dimostrano che il giornalismo multimediale non deve vivere solo di cazzilli.

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