08 marzo 2017 19:09

Per molti anni in tv, nei contesti più generalisti e popolari, si è parlato di due videogiochi, anzi due saghe, e quelle soltanto: Halo e Tomb Raider. La prima era accompagnata da cronache di successi planetari e avventure spaziali oltre i confini dell’immaginario, la seconda era la storia di Lara Croft.

Lara Croft è stata, in grande anticipo sul dibattito di questi ultimi anni sulla rappresentanza di genere nella cultura popolare, un’eroina protagonista di vicende avventurose. Ma prima di essere tutto questo, la protagonista della serie Tomb Raider era un modello estetico sexy, con un corpo perfetto tornito al computer da uomini, cambiato di gioco in gioco per seguire i canoni estetici del momento. È un tema, questo, che ha sollevato spesso Anita Sarkeesian, la femminista che si è occupata con più visibilità di rappresentazione di genere e videogiochi, e che per questo ha anche subìto minacce e insulti per mesi.

Il corpo di Lara Croft e di personaggi analoghi è sempre stato centrale, sia metaforicamente che di fatto. Era sullo schermo per essere ammirato. Senza addentrarsi in una polemica che comprende posizioni molto diverse e sfumate, si può condividere forse un punto: non è tanto la sessualizzazione del personaggio femminile in sé il problema, quanto l’idea che questa natura attraente e desiderabile sia implicita per le femmine e un’opzione per i maschi.

In prima persona
Ma allo stesso tempo, se da una parte era implicito che chi agiva come Lara Croft giocando a Tomb Raider potesse desiderarla o riconoscere in lei un modello estetico stereotipato, allo stesso tempo Lara era un soggetto molto più di quanto lo fosse Angelina Jolie quando la interpretava al cinema. Questo perché i videogiochi sono un linguaggio che prevede un’immedesimazione strutturale tra chi ha in mano il joypad e il personaggio che fa muovere: il film mi racconta la storia di qualcuno, mentre nel gioco in qualche misura vivo la storia dei personaggi in prima persona.

Da una parte questo impedisce di oggettivizzare la donna fino in fondo, perché costringe a un rapporto d’identità tra chi manovra e chi si muove di conseguenza; allo stesso tempo, proprio per questa ragione le donne sono fisicamente gestite da chi gioca, quindi esiste una forma di controllo implicita che complica decisamente le cose. È comunque vero che io, in un paese come l’Italia in cui si parla una lingua che ha sostantivi e aggettivi declinati per genere, sono un maschio che se gioca a Tomb Raider può “essere colpita” o “uccisa”. Anche solo per dettagli come questo, Lara Croft ha avuto un ruolo controverso ma storicamente rilevante in questa dinamica, molto prima che diventasse di stringente attualità.

La rappresentazione delle donne nei videogiochi è un tema che si muove parallelamente a quello dei sentimenti veicolati dal gioco

Negli ultimi anni il dibattito relativo alla realizzazione di giochi impostati su ruoli di genere diversi dal solito ha coinvolto studi di sviluppo piccoli e grandi. Per esempio la giovane autrice olandese Sherida Halatoe ha concepito Beyond eyes nel 2015 (ultimato con l’aiuto dello storico studio britannico Team 17 e distribuito sulla piattaforma di Xbox One dedicata ai giochi indipendenti). Nel gioco una bambina cieca si muove in un mondo fatto di riferimenti acustici e tattili, che in qualche modo corrisponde al suo mondo sensibile e interiore. Va detto che questo della rappresentazione delle donne nei videogiochi è un tema che si muove parallelamente a quello dei sentimenti veicolati dal gioco, delle emozioni suscitate. In questo caso la protagonista diventa portatrice non solo di un ruolo nuovo, ma anche di un’impostazione emotiva originale.

Classicamente i videogiochi si muovono su binari emotivi collaudati: ci sono molta competizione, molto eroismo e molta paura, e quasi sempre il sollievo dalla tensione è frutto della sconfitta dell’avversario, della sopraffazione. Se la scrittura è impostata per far dare corpo a questi temi, per quanto queste distinzioni siano a loro volta spinose, è difficile decidere di mettere al centro di tutto una femmina. Beyond eyes non solo è scritto da una donna, peraltro vedente, ma si occupa di un mondo interiore che i grandi giochi “maschili” in genere ignorano.

Neutro singolare, predefinito
Jenova Chen, uno degli autori più innovativi proprio sul tema della tavolozza emotiva, non a caso per il suo seminale Journey ha inventato un personaggio senza genere, senza età, senza corpo: solo un mantello svolazzante con un cappuccio da cui spuntano due occhi. Nel gioco si incontrano altri giocatori, ma senza poter interagire in alcun modo verbale, dovendo comunicare solo condividendo lo spazio, i movimenti e un pezzo di strada. Questa neutralità di genere è fondamentale per permettere ai giocatori di relazionarsi in modo neutro, senza stereotipi di ruolo e rapporti di potere predefiniti.

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Uno dei giochi migliori del 2015 è stato Life is strange, sviluppato dallo studio parigino Dontnod e uscito a puntate su tutte le piattaforme. Max, la protagonista, è un’adolescente tormentata che studia in un college nel nordovest degli Stati Uniti, e vive in un contesto di amicizia tra teenager in cui i generi sono molto visibili, identitari e abbastanza distinti per gruppi. La storia è vista da un punto di vista femminile e nel gioco, caratterizzato da una trama avventurosa con tanto di metafisica e viaggi nel tempo, ci si muove da un punto di vista che osserva il cameratismo classico da college dei maschi, ma se ne tiene lontano.

Un altro caso di avventura videoludica che ha per protagoniste delle atipiche è Left behind, un contenuto aggiuntivo del capolavoro The last of us, uscito mesi dopo il gioco principale. In The last of us, una storia legata a un’epidemia che scatena un’apocalisse zombie, il rapporto tra l’uomo e la bambina protagonisti diventa il vero fulcro dell’esperienza di gioco, al di là della fine del mondo e delle creature mutanti da cui difendersi. Left behind è un piccolo prequel che racconta qualche ora della vita di due migliori amiche colpite dalla tragedia, la protagonista Ellie e l’amica Riley.

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Anche se comprende momenti di azione e senso di pericolo, Left behind è soprattutto la storia di due ragazzine che si conoscono e si scelgono in un momento difficile della loro vita. Anche qui si ribadisce l’impressione che il ruolo delle femmine nei videogiochi di questi ultimi anni, soprattutto nelle grandi produzioni, sia quello di interpretare un ruolo diverso da quello solito, ma anche di dare spazio a contenuti nuovi, che prima non erano appannaggio dei protagonisti maschili perché semplicemente non c’erano. È paradossale da questo punto di vista la scelta di Gears of war, la più testosteronica delle grandi produzioni degli ultimi anni, rigonfia di maschi armati e sarcasmo cameratesco: per il suo ultimo capitolo, senza cambiare contesto e temi, ha scelto d’inserire una donna tra i protagonisti.

Negli ultimi anni la rappresentazione dei generi nei videogiochi è diventata un argomento importante

In questi ultimi cinque anni la rappresentazione dei generi è diventata un argomento importante nel mondo dei videogiochi, come non lo era mai stato; questo sia per la credibilità del mezzo sia per allargare i titoli a generazioni con sensibilità nuove. Overwatch, uno dei titoli più rilevanti dell’anno passato, ha svelato che una delle eroine guerriere del gioco, Tracer, è lesbica. La cosa è emersa sotto Natale quando, in uno dei fumetti che accompagnano il gioco e approfondiscono le storie dei personaggi, si è scoperto che ad aprire i pacchi a casa di Tracer c’erano lei e la fidanzata. Ovviamente anche qui si è scatenata una polemica, ma le reazioni negative sono sembrate marginali e irrilevanti.

L’ultima speranza del matriarcato
Aloy è il personaggio più recente e più compiuto a scaturire dall’accelerazione che il tema della rappresentazione femminile nei videogiochi ha subìto negli ultimi tempi. È la protagonista di Horizon zero dawn, avventura gigantesca sviluppata per Playstation4 da Guerrilla, lo studio di Amsterdam di proprietà della Sony che in passato ha firmato la serie Killzone. Il gioco racconta la storia di una civiltà che vive sulla Terra dopo una grande guerra vinta dalle macchine: si tratta di un filone abbastanza frequentato negli ultimi tempi, che sembra seguire la celebre profezia di Einstein secondo cui la quarta guerra mondiale sarebbe stata combattuta con lance e frecce.

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In un contesto primitivo, dove la tecnologia antica è sepolta sotto le macerie, gli uomini vivono sulla Terra ma ridotti nel numero e abbastanza nascosti, come fossero per noi oggi le volpi. A interpretare il ruolo dominante invece sono delle macchine zoomorfe, degli animaloni meccanici a tratti mansueti e altre volte feroci, che sono i dominatori del pianeta. Aloy fa parte degli umani, ma è un’esclusa, una reietta. Per motivi inizialmente poco chiari Aloy è bandita dalla società dei suoi simili, e cresce ai margini insieme a un tutore altrettanto reietto. A governare la tribù è un ordine sacerdotale matriarcale femminile. All’inizio del gioco, Aloy affronta una sfida con gli altri giovani del villaggio per conquistarsi la cittadinanza. Vince la sfida, ma una tribù rivale approfitta della cerimonia per cercare di sterminare il villaggio. Le “madri” si affidano ad Aloy come ultima speranza per salvare la tribù. Il gioco inizia sostanzialmente qui.

In Horizon zero dawn il messia non è Mosé né Paride né Romolo o Remo. Ma è una bambina. E non è una differenza da poco

Aloy è sola in un mondo in cui le differenze di genere non esistono più. Pur essendo un personaggio che vive nella tradizione, la ragazza dai capelli rossi non viene caratterizzata come madre o sposa. E non solo le donne sono le depositarie del sapere ancestrale, e la escludono perché elemento rivoluzionario e pericoloso, ma sono anche le figure di riferimento di tutti, e insieme agli altri accolgono un’esterna come salvatrice. In tutto ciò, Horizon zero dawn è un gioco d’avventura pieno di azione e momenti di battaglia, di quelli che classicamente vedono al centro dell’attenzione un personaggio che ricorda Harrison Ford o Vin Diesel.

Uncharted ne è un esempio classico, raffinatissimo e perfettamente consapevole: lo scapolone simpatico Drake, circondato da donne maschiaccio con cui flirta alla Indiana Jones, salva l’umanità e finisce le avventure fidanzato. Nel caso di Aloy abbiamo una donna che è protagonista di un mito classico, quello del bambino cacciato dalla società: messo in una cesta e abbandonato al fiume, adottato da un animale o una persona amorevole, cresce destinato a una rivincita sociale che lo porterà al ruolo di salvatore e messia. Solo che in questo caso non si tratta di Mosè, Paride o Romolo e Remo, ma di una bambina. E non è una differenza da poco.

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