15 maggio 2012 13:07

Le due potenti esplosioni avvenute il 10 maggio a Damasco davanti a un edificio dei servizi di sicurezza siriani segnano una nuova, spaventosa pietra miliare del conflitto che sconvolge il paese da 14 mesi, ma rispecchiano anche l’andamento tristemente consueto degli eventi in tutto il mondo arabo. Gli attentati, che hanno ucciso più di 55 persone e ne hanno ferite centinaia, sono l’ennesimo indice del fatto che il conflitto siriano va peggiorando, cioè si fa sempre più polarizzato, settario e violento.

La sua evoluzione relativamente rapida – da una sequenza di manifestazioni pacifiche in alcune città di provincia a violenze e manifestazioni su vasta scala ad Aleppo e a Damasco – è un segnale sinistro ma dal significato non ancora del tutto chiaro. Colpisce che questi attentati – e altri che li hanno preceduti ad Aleppo e a Damasco – avvengano proprio nelle due città che da tempo erano considerate un po’ appartate rispetto alla ribellione siriana contro il regime del presidente Bashar al Assad e la sua famiglia.

Questo suscita le consuete accuse secondo cui gli attentati avrebbero potuto essere organizzati soltanto dal regime stesso, perché le misure di sicurezza in quelle città sono troppo rigide perché chiunque altro potesse riuscire a metterli a segno. Gli altri principali sospettati di aver organizzato questo e altri attentati dinamitardi sono i movimenti salafiti (di solito anonimi) che sono vicini ad Al Qaeda o comunque vi s’ispirano, o addirittura la stessa Al Qaeda, che avrebbe agito dal vicino Iraq.

Di certo, invece, gli attentati non sono stati organizzati dai tradizionali movimenti di opposizione che operano all’interno e all’esterno della Siria, considerato che finora l’opposizione ha avuto una natura largamente pacifica. Forse qualche gruppo dell’opposizione sempre più deluso dalla lentezza dei progressi compiuti verso il rovesciamento del regime ha deciso di staccarsi, dando vita a organizzazioni più militanti che usano questi attentati urbani come propria tattica principale. È impossibile anche escludere che questi attentati siano opera di paesi stranieri che, aspirando a rovesciare il regime di Bashar al Assad, subappalterebbero simili operazioni a gruppi criminali dotati della capacità di organizzarle.

Il fatto che i sospettati siano tanto numerosi è uno degli aspetti più tristi del fenomeno, e ci dice qualcosa di molto grave sulla condizione degli ordini politici dei paesi arabi in questi tempi moderni. Al di là della morte di civili innocenti e della promessa che ci saranno altri attentati nei prossimi mesi, ecco l’aspetto tragico di questo avvenimento: esso aggiunge la Siria al lungo elenco di paesi arabi le cui capitali, negli ultimi decenni, sono apparse sui nostri schermi televisivi con immagini delle devastazioni provocate da una vera e propria guerra urbana.

Dagli anni ottanta, infatti, le capitali arabe sono diventate una dopo l’altra dei campi di battaglia, su cui governi, opposizioni interne e antagonisti esterni si scontrano con tutte le armi disponibili. Beirut, Amman, Sana’a, il Kuwait, Baghdad, Algeri, Mogadiscio, Gerusalemme, Riyadh, il Cairo, Tripoli, Casablanca, il Darfur e altre città e regioni del mondo arabo ci hanno ricordato a turno le diverse cause di fondo dell’instabilità, della volatilità politica e della violenza che le hanno trasformate in campi di battaglia. Se c’è un’immagine comune che molti paesi arabi, con poche eccezioni, hanno prima o poi proiettato, è quella dell’edificio sventrato o della strada bombardata, col suo pennacchio di fumo nero che si leva sopra la città, in mezzo a cadaveri e veicoli contorti, e quella dei fiumi di profughi che cercano di scappare per cercare sicurezza altrove.

Questo comune retaggio delle gravissime violenze politiche che imperversano in tutto il Medio Oriente dovrebbe rappresentare ai nostri occhi un indizio significativo dei problemi e delle debolezze di fondo di tanti paesi arabi. Ma potrei citare anche altri fenomeni su scala regionale che costituiscono anch’essi degli indizi significativi: penso al coinvolgimento di forze armate straniere in quei paesi, all’emigrazione su vasta scala di giovani istruiti, alla proliferazione dei gruppi salafiti militanti, e a volte criminali, che abbracciano il terrorismo.

A volte, all’estero, ci sono sinistri personaggi che attribuiscono questi fenomeni a una cultura araba o islamica incline, a detta loro, alla violenza, oppure tirano fuori qualche altra spiegazione superficiale. Una lettura più ragionata di questi attentati di Damasco e di altre e analoghe violenze politiche nelle capitali arabe è che essi rispecchiano le profonde distorsioni realizzate nell’esercizio del potere da regimi violenti che poggiano su legami familiari e sui servizi segreti. Tali distorsioni suscitano il malcontento di massa tra i cittadini e l’insicurezza dei regimi stessi che finiscono per manifestarsi in questa guerra urbana. Almeno in parte, la serie di rivolte che continuano a spazzare la regione si può interpretare dunque come la più recente e più significativa espressione dei sentimenti di un gruppo importante di scontenti spesso e in larga misura ignorato nella saga moderna degli stati arabi: i cittadini.

I paesi che in questi ultimi tempi hanno conosciuto ribellioni interne avranno bisogno di tempo per mettere a punto nuovi sistemi di governance che diano ai loro cittadini quel senso di equità e di pari opportunità nella vita pubblica di cui in questi decenni si è sentita largamente la mancanza. In assenza di un’ordinata transizione democratica, fondata sull’autodeterminazione, le città bombardate e date alle fiamme – oggi agli onori della cronaca in Siria – sono diventate una tappa inevitabile sul cammino che, sul terreno della governance delle nazioni arabe, condurrà dalla repressione criminale all’integrità e ai diritti dei cittadini. 

Traduzione di Marina Astrologo.

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