03 settembre 2015 20:05

Li chiamavano i bambini di Leuca, figli di giovani madri con un futuro incerto e un passato spezzato. Venivano al mondo nell’ospedale di Santa Maria di Leuca, che allora era a pochi metri dalla spiaggia, circondati dal sole e dall’odore del mare, che per i loro genitori significavano molte cose ma sopratutto la libertà.

Sono duecentocinquanta i bambini ebrei nati nei campi di transito salentini alla fine della seconda guerra mondiale da famiglie sopravvissute ad Auschwitz. Le loro risate, per chi aveva perso tutto tranne la vita, davano un po’ di speranza nel futuro.

Una famiglia non ce l’aveva più nessuno. Qualche frammento, magari: un padre, una zia, un parente lontano, nient’altro. Anche per questo in tre anni sono stati celebrati trecentocinquanta matrimoni. Un modo per sfidare la morte – vista da vicino – con la voglia di vivere e di costruirsi una casa.

Non lontano dalle spiagge, nei luoghi che prima della guerra erano case vacanze lussuose e ora erano ville abbandonate, erano stati fondati dei kibbutzim. Ogni kibbutz aveva la sua ideologia politica, ma il valore sovrano era lo spirito di condivisione. Nelle scuole costruite lì accanto, i bambini imparavano a leggere e a scrivere.

Erano campi profughi, un periodo di transito, che grazie all’antica tradizione italiana di salvare e assistere chi si trova in difficoltà divenne una specie di periodo di convalescenza, un passaggio lungo tre anni dall’inferno a una vita normale ancora tutta da vivere.

In quegli anni i rapporti tra i salentini e gli abitanti ebrei dei campi erano molti e di vario tipo. Una giovane donna decise di regalare il suo vestito di matrimonio a una ragazza ebrea e gli uomini ebrei aiutavano i pugliesi nei lavori pesanti, nascevano amicizie tra i giovani, un abitante di Tricase scambiò la sua fisarmonica con un pezzo di pane bianco arrivato ai profughi con gli aiuti internazionali, mentre gli ebrei vendevano le coperte americane ai salentini, che ci cucivano i cappotti per l’inverno.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

“Non eravamo profughi ma piuttosto persone sradicate”, racconta una delle ex bambine di Santa Maria di Leuca, oggi una signora israeliana quasi settantenne. La sua storia e quella degli altri bambini del campo è raccontata nel documentario Rinascere in Puglia di Yael Katzir, che sarà proiettato sabato 5 settembre alle ore 21 all’Isola del cinema, a Roma.

Un film che testimonia la straordinaria ospitalità e la forza curativa dei legami umani, di quella calorosa accoglienza fatta con pochissimi mezzi che ha permesso di acquisire di nuovo la fiducia nel genere umano.

Sono partite in tre, le ex bambine di Santa Maria di Leuca, e pian piano le hanno raggiunte altri per rivedere con i propri occhi il posto e rincontrare le persone. E poterle ringraziare.

Oggi al piccolo museo di Santa Maria di Leuca ci sono un vestito da matrimonio e una fisarmonica, donati con una cerimonia commovente dalle tre bambine diventate ormai grandi. Un modo per ricordare e per essere grati per il calore umano e l’accoglienza che hanno permesso ai loro genitori di poter sorridere di nuovo e di sognare.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it