21 marzo 2020 09:18

I nostri mezzi d’informazione ripetono ossessivamente “Niente panico!”. E poi arriva una montagna di dati che inevitabilmente scatena il panico. La situazione mi fa tornare in mente i tempi della mia giovinezza in un paese comunista: quando le autorità del governo dicevano all’opinione pubblica che non c’era motivo di aver paura, tutti prendevano quelle rassicurazioni come un chiaro segnale del fatto che erano loro stesse a essere spaventate.

Il panico segue una logica propria. Il fatto che nel Regno Unito, a causa del Covid-19, la malattia originata dal nuovo coronavirus, dai negozi siano scomparsi perfino i rotoli di carta igienica mi ricorda un incidente avvenuto nella Jugoslavia socialista. Di punto in bianco cominciò a circolare la voce che nei negozi scarseggiava la carta igienica. Le autorità rilasciarono subito delle dichiarazioni, assicurando che c’erano sufficienti scorte di carta per il consumo ordinario. Sorprendentemente, non solo era vero ma la gente per lo più ci credette.

Il consumatore medio, però, ragionò in un altro modo: so che c’è abbastanza carta igienica e che si tratta di una voce senza fondamento, ma che succederebbe se qualcuno la prendesse sul serio e, in preda al panico, cominciasse a comprare quantità eccessive di carta igienica, facendo esaurire le scorte? Quindi è meglio che ne compri un po’ anch’io. Non occorre neppure credere che altri prendano questa voce sul serio, basta supporre che altri credano che ci siano persone che prendono la voce sul serio: l’effetto è lo stesso, vale a dire la mancanza di carta igienica nei negozi. Oggi non sta forse succedendo qualcosa di simile nel Regno Unito (e in California)?

Lo strano contraltare di questo genere di panico è la totale assenza di panico quando sarebbe pienamente giustificato. Negli ultimi due anni, dopo l’epidemia di Sars e di ebola, ci hanno ripetuto molte volte che sarebbe arrivata una nuova epidemia, molto più grave. Era solo questione di tempo, il punto non era se, ma quando sarebbe successo. Anche se razionalmente eravamo convinti della fondatezza di queste tragiche previsioni, in qualche modo non le prendevamo sul serio ed eravamo restii ad agire e a impegnarci in preparativi seri. Gli unici ad affrontarle sono stati i film apocalittici come Contagion.

Questa contraddizione ci dice che il panico non è il modo giusto di affrontare una minaccia reale. Quando reagiamo con il panico non prendiamo una minaccia troppo sul serio, ma al contrario la banalizziamo. Pensate solo a quanto è ridicolo l’acquisto eccessivo di carta igienica: come se avere abbastanza carta igienica potesse contare qualcosa nel bel mezzo di un’epidemia mortale. E allora quale sarebbe una reazione appropriata all’epidemia del nuovo coronavirus? Cosa dovremmo imparare e cosa dovremmo fare per affrontarla seriamente?

Gli inganni del potere
Quando ho suggerito che questa epidemia potrebbe dare nuovo slancio vitale al comunismo, la mia tesi, come previsto, è stata messa in ridicolo. Sembra che l’approccio drastico dello stato cinese alla crisi abbia funzionato, o almeno ha funzionato meglio di quello che sta facendo l’Italia. Ma la vecchia logica autoritaria dei comunisti al potere ha anche dimostrato chiaramente i suoi limiti. Uno di questi limiti è che la paura di dare cattive notizie a chi ha il potere (e all’opinione pubblica) conta più dei risultati: è per questo che i primi ad annunciare il nuovo virus sono stati arrestati.

Oggi sembra che stia succedendo qualcosa di simile, come ha raccontato il 1 marzo il sito Bloomberg News: “Le pressioni per far tornare al lavoro la Cina dopo la paralisi provocata dal coronavirus stanno risuscitando una vecchia tentazione: manipolare le cifre in modo da mostrare alle autorità quello che vogliono vedere. Questo fenomeno è evidente nei dati sul consumo di elettricità nella provincia di Zhejiang, un centro industriale della costa orientale. Stando a persone che conoscono bene la questione, almeno tre città hanno dato alle fabbriche locali obiettivi da raggiungere nel consumo di energia elettrica perché questo dato serve a dimostrare una ripresa della produzione. E si dice che alcune aziende siano state spinte a mettere in movimento le macchine anche se gli impianti rimangono vuoti”.

Possiamo solo indovinare cosa succederà quando le autorità al potere si accorgeranno di questo inganno: i dirigenti locali saranno accusati di sabotaggio e saranno puniti, riproducendo il circolo vizioso della sfiducia. Ci vorrebbe un Julian Assange cinese per rivelare all’opinione pubblica questo lato nascosto della lotta nazionale contro l’epidemia.

La crisi attuale dimostra che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell’interesse di tutti, e sono l’unica cosa razionale ed egoista da fare

Ma allora, se non è questo il comunismo che ho in mente, cosa intendo per comunismo? Per capirlo, basta leggere le dichiarazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il 5 marzo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che sebbene le autorità sanitarie di tutto il mondo siano in grado di combattere con successo la diffusione del virus, l’organizzazione è preoccupata perché in alcuni paesi il livello d’impegno politico non corrisponde al livello della minaccia. “Questa non è un’esercitazione. Questo non è il momento di arrendersi. Questo non è il momento delle scuse. È il momento di fare ogni sforzo possibile. I paesi hanno fatto piani per scenari come questo da decenni. Ora bisogna agire sulla base di quei piani”, ha detto Tedros. “L’epidemia può essere respinta, ma solo con un approccio ad ampio raggio, coordinato e collettivo che impegni l’intero meccanismo di governo”.

Si potrebbe aggiungere che questo approccio ad ampio raggio dovrebbe estendersi ben oltre il meccanismo dei singoli governi: dovrebbe andare dalla mobilitazione locale di persone al di fuori del controllo statale a un coordinamento e a una collaborazione internazionali forti ed efficienti. Se migliaia di persone saranno ricoverate in ospedale per problemi respiratori servirà un numero molto superiore di apparecchi per la ventilazione polmonare, e per averle lo stato dovrebbe intervenire direttamente, come succede in condizioni di guerra quando servono migliaia di fucili, e dovrebbe poter contare sulla collaborazione di altri stati. Come in una campagna militare, le informazioni dovrebbero essere condivise e i piani perfettamente coordinati. Questo è il “comunismo” che secondo me serve oggi.

Come ha scritto Will Hutton sul Guardian: “Oggi una forma di globalizzazione senza regole del libero mercato, con la sua propensione per crisi e pandemie, sta morendo. Però ne sta nascendo un’altra, che riconosce l’interdipendenza e il primato dell’azione collettiva basata sull’evidenza dei fatti. Quella che ancora predomina è la posizione “ogni paese per sé”, spiega Hutton, e “ci sono divieti nazionali alle esportazioni di prodotti cruciali come le forniture mediche, con paesi che si affidano alle proprie analisi della crisi tra penurie e metodi improvvisati di contenimento.”

L’epidemia di Covid-19 non dimostra solo i limiti della globalizzazione dei mercati, ma anche quelli ancora più letali del populismo nazionalista che insiste sulla piena sovranità dello stato: è la fine di “Prima l’America (o qualunque altro paese)!”, perché gli Stati Uniti si possono salvare solo con il coordinamento e la collaborazione globale. Non sono un utopista, non invoco una solidarietà idealizzata tra esseri umani. Ma la crisi attuale dimostra chiaramente che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell’interesse di tutti e di ciascuno di noi, e sono l’unica cosa razionale ed egoista da fare.

E non è solo il nuovo coronavirus: la Cina qualche mese fa è stata scossa dalla peste suina e ora è minacciata da una possibile invasione di locuste. Oltretutto, come ha osservato Owen Jones sempre sul Guardian, la crisi climatica uccide molte più persone del Covid-19 in tutto il mondo, ma per questo non si scatena certo il panico.

In una prospettiva cinicamente vitalistica, si sarebbe tentati di considerare questo virus un’infezione positiva che permette all’umanità di sbarazzarsi di vecchi, deboli e malati, un po’ come sradicare le erbacce, e quindi contribuisce alla salute globale.

L’approccio comunista che propongo è l’unico modo per lasciarci alle spalle questa posizione vitalistica e primitiva. I segnali di un freno alla solidarietà incondizionata sono già riconoscibili nei dibattiti in corso, come spiega questo articolo dell’Independent su un possibile ruolo dei “tre saggi” nel Regno Unito: “Durante una grave epidemia di coronavirus, se i reparti di terapia intensiva non riusciranno a far fronte all’emergenza, i pazienti del servizio sanitario nazionale potrebbero vedersi negate cure salvavita. Seguendo il cosiddetto protocollo dei tre saggi, nell’eventualità di un sovraffollamento degli ospedali, tre esperti di ogni struttura sarebbero costretti a prendere le decisioni sul razionamento di mezzi di assistenza come letti e ventilatori polmonari”.

Quali criteri seguiranno i tre saggi? Sacrificare i più deboli e i più vecchi? E questa situazione non favorirà un’immensa corruzione? Queste procedure non indicano che ci stiamo preparando a mettere in pratica la più brutale logica della sopravvivenza dei più adatti? E allora, ancora una volta, la scelta finale è: tutto questo o un qualche tipo di comunismo reinventato.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è uscito sul numero 1349 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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