21 aprile 2010 00:00

Il vento freddo di inizio febbraio spazza la Quinta avenida, nella parte occidentale dell’Avana. Più di trenta donne vestite di bianco camminano con dei gladioli in mano, si fermano a un angolo e gridano: “Libertà”. Alcuni passanti applaudono, altri evitano di avvicinarsi per non essere ripresi dalle videocamere che circondano il posto e che intimidiscono tutti con i loro occhi di cristallo.

Quelle donne sono le signore in bianco: mogli, madri e figlie di prigionieri politici detenuti ormai da sette anni e condannati a lunghe pene e a innumerevoli insulti ufficiali. La loro è l’unica espressione di malcontento civile che è riuscita a strappare al governo cubano un frammento della città, un pezzo di un paese ancora spaventato e messo a tacere da chi è al potere.

Otto anni fa molte di loro non sapevano neanche dell’esistenza delle altre, ma la primavera nera del 2003 le ha unite nel pianto, nel bisogno e in queste lunghe camminate domenicali. All’inizio della guerra degli Stati Uniti in Iraq, il governo di Fidel Castro ha approfittato della distrazione generale per sbattere in carcere quasi un centinaio di oppositori e giornalisti indipendenti.

Però il vecchio trucco di aspettare che la comunità internazionale guardasse altrove non ha funzionato. La condanna degli arresti è stata unanime, ma non è riuscita a evitare che i tribunali cubani processassero 75 cittadini in base alla temibile legge 88, la cosiddetta ley mordaza (legge bavaglio).

Sette anni d’ingiustizia

A marzo di quest’anno si è compiuto il settimo anniversario di quei processi sommari e 53 dei condannati sono ancora in prigione, accusati di “atti che in accordo con gli interessi imperialisti cercano di sovvertire l’ordine interno del paese e di distruggere il suo sistema politico”.

Come pena aggiuntiva, i condannati sono stati detenuti in centri penitenziari che si trovano a centinaia di chilometri di distanza dalle loro case e hanno diritto a un numero limitato di visite familiari. Ancora oggi diciotto delle persone rimaste dietro le sbarre sono lontane dalle loro città, in prigioni di massima sicurezza.

La pressione internazionale è riuscita a ottenere per molti la scarcerazione a condizione, in alcuni casi, dell’esilio. Su richiesta di governi, personalità e organismi di tutto il mondo, sono stati lasciati uscire, seppur con il contagocce, i detenuti in gravi condizioni di salute.

Ma le sentenze non sono state revocate, quindi chi è stato liberato rischia ancora di tornare in cella, nello spazio stretto e umido destinato ai dissidenti.

Di fronte all’impotenza per l’ingiusta detenzione di una persona cara, è difficile prevedere come reagiranno i parenti che rimangono al di qua delle mura del carcere. Nel caso delle signore in bianco lo sdegno e la tristezza si sono tradotti in un movimento pacifista in cui non c’è spazio per la violenza o le grida.

Donne sotto assedio

Queste donne di diverse età ed estrazione sociale vivono sotto l’assedio di agenti che sorvegliano le loro case, e le loro giornate sono segnate dal discredito sociale, dai tentativi di intrusione dei servizi segreti nella loro vita privata e dall’allontanamento di chi, per paura, preferisce non avere nulla a che fare con i familiari dei prigionieri politici. Hanno perso molti amici, eppure ogni domenica nuove donne sostengono il pellegrinaggio con la loro presenza.

Le persone messe sotto processo durante la primavera nera sono diventate una pedina sulla scacchiera di una partita politica che non ha niente a che vedere con la giustizia o con la legalità. Le loro vite dipendono da una mano che, in uno spazioso ufficio in piazza della Rivoluzione, potrebbe firmare l’ordine di scarcerazione e lasciarle uscire. La testardaggine del regime cubano impedisce un gesto di riconciliazione: concedere l’amnistia a queste persone per farle tornare dalle loro famiglie.

Le signore in bianco non sono un partito né un blocco omogeneo, ma un gruppo accomunato dalla sofferenza e dall’attesa. Sono diventate una presenza costante nelle nostre strade e i loro vestiti chiari sono guardati con ammirazione da alcuni e con un’angoscia insopportabile da altri.

Ogni volta che hanno cercato di reprimerle è stata evidente la sproporzione tra la loro fragilità e il potere di un governo che può contare su un’enorme macchina di propaganda, sui tribunali, sulla polizia e sulla possibilità di riscrivere le leggi a suo piacimento. Il tentativo di screditare queste donne ha ottenuto l’effetto contrario: le ha rese più famose e rispettate dentro e fuori da Cuba.

L’ammirazione per loro cresce, mentre la forza simbolica delle barbe e delle uniformi verde oliva ha perso vigore ormai da tempo e ha esaurito tutto il suo capitale politico.

Quest’uso sproporzionato della forza ha solo reso evidente che i processi politici basati su emblemi virili si rivelano molto fragili quando a opporsi è una frase materna, un gruppo di donne con dei gladioli che camminano per un viale.

*Traduzione di Sara Bani.

Internazionale, numero 843, 23 aprile 2010*

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