08 giugno 2020 10:52

“Non sarò mai grato abbastanza ai gruppi di condivisione per avermi aiutato a mettere in discussione l’immagine dell’uomo buono di cui andavo fiero. C’era una parte resistente, molto ben mascherata dentro di me, che con loro ho potuto affrontare e non nascondere più”. Dopo quindici anni di discussioni e autoanalisi in un gruppo di uomini eterosessuali e sposati a Bari, a 65 anni Nino De Giosa ha fatto coming out, si è separato dalla moglie ed è venuto a Roma, dove ha cominciato a frequentare gli incontri di Maschile plurale, una rete di uomini impegnati contro la violenza maschile sulle donne e gli stereotipi di genere.

L’associazione è nata nel maggio del 2007 a Roma, ma vi sono confluite esperienze maturate già a partire dagli anni ottanta, sia quelle di gruppi più politici – per esempio il movimento per la pace, con la sua critica alla violenza, alla guerra, al militarismo e al maschilismo – sia quelle legate a realtà religiose, soprattutto nel mondo valdese. Oggi chi ne fa parte cerca di definire “un’identità maschile, plurale e critica verso il modello patriarcale, anche in relazione positiva con il movimento delle donne”.

Gli incontri nella sede di via Valeriano, nel quartiere Ostiense a Roma, sono un buon punto di osservazione di questo mondo. La scenografia è minima. Delle sedie in circolo, un rapido giro di presentazioni e due regole: non interrompere e non giudicare. I temi di cui si discute sono diversi: si va dalla sessualità alla paternità, passando per il rapporto che gli uomini hanno con la violenza di genere, la pornografia, l’affettività e la prostituzione.

Trappole
A parlarne non sono solo uomini eterosessuali. “Negli anni duemila uno degli elementi di difficoltà nei gruppi maschili è stato proprio l’ingresso degli omosessuali”, ricorda Stefano Ciccone, uno dei fondatori di Maschile plurale.

“I gruppi degli anni ottanta e novanta erano prevalentemente eterosessuali. Quando sono entrati gli omosessuali questo ha creato molti disagi e conflitti. Un po’ perché i maschi etero erano iperpoliticizzati e molto legati al femminismo, mentre quelli omosessuali venivano da un percorso nel movimento lgbt ed erano molto meno ossequiosi verso il movimento delle donne, si permettevano di esprimere insofferenza e di fare battute un po’ misogine perché non avevano quel freno che i maschi eterosessuali si erano autoimposti”, spiega Ciccone. “L’altro elemento forte era quello della corporeità, dell’intimità. Gli eterosessuali erano a disagio nei confronti del desiderio omosessuale”.

Durante un incontro dell’associazione Maschile plurale, Roma, novembre 2019. (Marco Valle per Internazionale)

Jacopo Celentano, 29 anni, partecipa agli incontri da un paio d’anni. “Dopo essermi confrontato con la mia compagna mi sono avvicinato a Maschile plurale pensando di fare un qualche tipo di attivismo per combattere la violenza maschile contro le donne. In realtà, partecipando agli incontri ho cominciato a fare un lavoro su me stesso. Parlare con altri uomini di temi come la sessualità maschile era una cosa che non avevo mai fatto. In generale nella nostra società è molto difficile farlo, a meno che non si ricorra alla goliardia. Fin da bambini si può esser presi di mira perché non si è abbastanza virili. Il fatto che volessi solo essere amico di alcune ragazze, per esempio, dava subito adito a etichette: ‘Sei gay’. Mi sembrava che essere maschio fosse una trappola, un recinto”.

Vittimismo e messa in discussione
A partire dagli anni settanta chi inseguiva una specie di liberazione maschile ha finito per ritrovarsi in movimenti impegnati nel recupero di un “maschile originario”. Si trattava di movimenti che volevano valorizzare una sorta di identità e specificità maschile, spesso con toni misogini e in competizione con le donne. In Italia questa tendenza ha portato a gruppi come Maschi Selvatici, Uomini 3000 e Maschi Beta, che aspirano a un’autenticità in conflitto con il femminismo e con il mondo contemporaneo.

L’idea ricorrente è che la modernità abbia svuotato gli uomini della loro identità, interrotto il passaggio di saperi da una generazione all’altra, messo in discussione i loro valori e quindi prodotto degli uomini disorientati, senza qualità e identità.

Fa parte di questo quadro anche il vittimismo dei padri separati e dei maschi che si considerano discriminati dalle donne. Tra loro, in una posizione estrema dello spettro, ci sono gli incel (involuntary celibate, celibi involontari), protagonisti in alcuni casi di veri atti di terrorismo.

Post-it usati per le attività dell’associazione, Roma, novembre 2019. (Marco Valle per Internazionale)

Uno degli aspetti più discussi dentro Maschile plurale è la relazione con i vari femminismi e le loro istanze. “Un tema che, in particolare, ha creato divisioni tra noi è quello del rapporto con la violenza”, ammette Ciccone. “In un paio di situazioni uomini che facevano parte della rete sono stati accusati dalle proprie compagne di aver avuto comportamenti psicologicamente violenti e una parte del femminismo ha colto l’occasione per esprimere il fastidio e la diffidenza verso il movimento maschile, sostenendo che non ci sono uomini affidabili e buoni, e che dietro gli uomini c’è sempre una fregatura”.

Ciccone spiega come la pensa il gruppo che ha contribuito a far nascere: “Noi abbiamo sempre detto: ‘Non siamo gli uomini buoni’, cioè non siamo esenti da culture e comportamenti violenti e discriminatori. Il problema è il contrario: dobbiamo riconoscere che siamo tutti dentro una cultura di questo tipo e che quello che possiamo fare è lavorare sulla nostra complicità, sulla messa in discussione e non su una ricerca di estraneità, innocenza e distanza dal mondo maschile”. Il problema, secondo Ciccone, “non è dividere tra buoni e cattivi, semmai dividere tra chi prova a lavorare su un percorso di consapevolezza e chi sceglie di non mettersi in discussione”.

Meccanismi
Ex dirigente del settore farmaceutico, Nicola Di Pietro fa parte del gruppo romano dal 2015. “Un mio amico mi ha parlato di Maschile plurale, quando stavo vivendo un momento di conflitto con mia sorella. Lei mi accusava di violenza. Il tono della mia voce, il mio atteggiamento un po’ sprezzante: per lei erano espressioni della mia violenza”.

Di Pietro racconta cosa si aspettava una volta entrato a far parte del gruppo: “Volevo confrontarmi con altri uomini e, attraverso la condivisione, riuscire a identificare i meccanismi di questi comportamenti. Mi aspettavo che il confronto con altre persone mi potesse aiutare”. Come nel caso di altri partecipanti, anche lui è riuscito a capire qualcosa in più di se stesso: “Ma anche della competitività, del ruolo che le aspettative giocano nell’irritazione, nelle reazioni verso gli altri, nel giudizio che se ne dà. Al di là del risultato, che anche se parziale c’è, per me l’aspetto più gratificante è stato l’incontro con gli altri. Le mie sfuriate, una certa tendenza a giudicare e ad arrabbiarmi non sono scomparse, ma ho sviluppato la capacità di capire il mio comportamento, di ammetterlo e di cercare di controllarlo”.

Nicola Di Pietro nel suo appartamento, Roma, novembre 2019. (Marco Valle per Internazionale)

Di Pietro ha vissuto per quindici anni tra Toronto, Londra e New York. Del periodo trascorso in Canada – dal 1992 al 1997 – ricorda ancora oggi con stupore “quanto fosse diffusa sui mezzi di informazione la denuncia dei casi di violenza maschile. Da noi non se ne parlava, lì invece c’era già un dibattito aperto sui giornali”.

Alla fine dell’intervista prende il telefono e dopo aver cliccato su un’app d’incontri gay legge alcuni messaggi: “Per veri maschi”, “Astenersi checche”. Potrebbe continuare a lungo, ma decide di fermarsi. “Parleremo del sessismo nel mondo omosessuale un’altra volta”.

Nazionalismo, pandemia
Tra i temi su cui Ciccone e gli altri di Maschile plurale discutono di più, ultimamente, ci sono il nesso tra le retoriche nazionaliste e maschiliste, e la pandemia.

Per quanto riguarda la prima questione, Ciccone non ha dubbi: “Oggi la destra manipola molto la sofferenza, il vittimismo maschile e l’immigrazione. I migranti sono descritti sempre come maschi palestrati che vengono a minacciare le ‘nostre’ donne, con l’idea che queste siano il ‘nostro’ territorio. Il movimento antirazzista e tutta la sinistra dovrebbero riconoscere che un filone di questo conflitto è anche quello che riguarda il rapporto tra i sessi”.

Per quanto riguarda invece il periodo di lockdown dovuto alla pandemia, cominciato il 9 marzo e finito il 3 giugno con la possibilità di tornare a spostarsi tra le regioni, Ciccone ha una visione articolata. “Mia figlia era nata da poco”, racconta, “ e con la chiusura in casa ho ottenuto un congedo di paternità ‘scandinavo’ di molte settimane che non avrei mai avuto in condizioni normali, visto che agli uomini spettano pochi giorni”. È l’ennesima occasione per “riconoscere l’esistenza di una quota di lavoro di cura ancora invisibile a carico delle donne e per rimettere in discussione il nostro ruolo, il rapporto che abbiamo con il lavoro e con il tempo. Stare un’ora con i propri bambini può farci capire che non tutto nella nostra vita di uomini è legato alla performance professionale”.

Dall’altro lato, però, bisogna fermarsi a considerare che proprio durante le lunghe settimane di sospensione delle attività e degli spostamenti, le violenze contro le donne sono continuate e anzi certe dinamiche sono state portate all’estremo proprio dalla chiusura in casa e dalla convivenza forzata.

Ciccone spiega che gli uomini maltrattanti con cui entra in contatto si raccontano spesso come delle pentole a pressione che a un certo punto devono scoppiare. Non possono farlo piangendo né tanto meno chiedendo aiuto, dicono, l’unica emozione concessa è la rabbia. “Per questo stiamo pensando a un telefono nazionale di ascolto per uomini così da intervenire prima che questa rabbia esploda”.

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