Intorno al tavolo ci sono una russa, un siriano, un marocchino, un senegalese e un romeno. Il corso si sofferma sui verbi che finiscono in -ere. “Cosa significa ridere?”, domanda uno degli studenti. Giuliano Giuliani consulta rapidamente un dizionario italiano-inglese. To smile o to laugh?
Siamo nella sede del GhettUp, un’associazione situata in una delle piccole strade pedonali del centro di Genova. A pochi passi dal porto vecchio, questo quartiere ha sempre accolto chi viene da fuori: prima dal meridione, poi dal Nordafrica e oggi dall’Africa. Tra queste strade si incrociano molte nazionalità, nel centro di una città di 600mila abitanti.
Giuliano Giuliani tiene da poco un corso d’italiano gratuito. “È importante dare una scossa. Se queste persone non imparano l’italiano non potranno fare nulla in questo paese. Inoltre voglio capire i motivi che li hanno spinti a emigrare, scoprire qualcosa sul loro paese d’origine e dimostragli che in Italia non c’è solo Matteo Salvini”.
Un paese che va a rotoli
Il 20 luglio 2001 la vita di Giuliano Giuliani è cambiata per sempre quando suo figlio Carlo è stato ucciso da un proiettile sparato da un carabiniere durante le manifestazioni contro il G8. Per anni Giuliano si è battuto affinché fosse fatta giustizia. Invano. “Oggi continuo la mia battaglia in un paese che va a rotoli”.
L’Italia che si prepara alle elezioni del 4 marzo vive in un clima esasperato. Fatta eccezione per i piccoli partiti a sinistra del Partito democratico, tutti i programmi elettorali si basano sulla lotta contro i migranti. Le proposte dei candidati assumono un tono sempre più razzista mentre la discussione si sposta a destra. Dopo la sparatoria di Macerata del 3 febbraio, quando un neonazista ha sparato ad alcuni migranti, la campagna è stata monopolizzata dal tema dell’immigrazione e l’intolleranza è arrivata ai massimi storici.
Eppure, al di là dei discorsi politici e delle esaltazioni giornalistiche, sono molti gli italiani che, come Giuliano Giuliani, continuano a lavorare per il bene degli stranieri. “Come fa un paese di 60 milioni di abitanti a considerarsi invaso da 150mila persone?”, si domanda Giuliani, ancora molto attivo a 79 anni. “È una follia. È una grande ipocrisia. L’economia delle regioni ricche come la Lombardia e il Veneto si basa in gran parte sul lavoro degli immigrati”.
La storia di una città industriale e ricca, culla dell’aristocrazia operaia, oggi è ridotta a tre fabbriche
Giuliani, ex lavoratore del settore editoriale, ha alle spalle un solido passato di sindacalista all’interno della Cgil. A Genova sono in molti ad avere una storia come la sua.
Nella sede del sindacato nella zona occidentale della città, ex polmone industriale, incontriamo una figura storica del movimento sindacale italiano, Franco Grondona, già segretario della Fiom locale per una decina d’anni, fino al 2015. Secondo Grondona, Genova vive un periodo di declino. La storia di una città industriale e ricca, culla dell’aristocrazia operaia, oggi è ridotta a tre fabbriche che nessuno sa fino a quando sopravviveranno.
“Le difficoltà economiche di Genova cominciano negli anni ottanta, con la privatizzazione delle aziende statali, quando la produzione industriale è diminuita ed è stato necessario concentrare le fabbriche di tutto il paese in un’unica area”. A Genova i tre grandi gruppi industriali ancora presenti – Ilva, Fincantieri e Ansaldo – sono costretti a ridurre la manodopera. L’Ilva e la Fincantieri hanno già minacciato di chiudere e sono cominciate durissime battaglie sindacali.
Zona d’intervento sparita
Dodici anni fa la mobilitazione dei lavoratori dell’Ilva si è conclusa con un accordo sui licenziamenti in cambio di una promessa a evitare nuove riduzioni del personale in futuro. Ma per quanto tempo? L’azienda sta per essere rilevata dalla ArcelorMittal. L’offerta presentata dal gigante indiano implica la soppressione di quasi settemila posti di lavoro in tutta Italia, 600 solo a Genova. “Non possiamo accettarlo, imporremo il rispetto dell’accordo”, garantisce il delegato sindacale dello stabilimento, Armando Palombo. L’Ilva di Genova conta appena 1.500 dipendenti, contro i diecimila degli anni ottanta.
Nel caso della Fincantieri – che ha appena riacquistato metà dei cantieri francesi di Saint-Nazaire – la mobilitazione sindacale ha permesso quattro anni fa di impedire la chiusura. Oggi sono in costruzione quattro navi da crociera, un’attività che garantisce lavoro agli ultimi 600 dipendenti fino al 2023. Ma in parallelo opera un universo di precari, 2.500 persone che non beneficiano delle stesse protezioni rispetto ai dipendenti dell’azienda.
“Negli ultimi trent’anni i sindacalisti italiani si sono assunti il compito di gestire la crisi”, sottolinea il sociologo genovese Salvatore Palidda. “Hanno negoziato le condizioni della cassa integrazione, dei prepensionamenti, ma non hanno mai proposto una legge che potesse impedire le delocalizzazioni”.
È il paradosso delle lotte sindacali. I sindacati sono capaci di creare una grande mobilitazione interna alle fabbriche e sono riusciti a salvare molti posti di lavoro, proteggere i salari e ottenere buone condizioni per i dipendenti licenziati (cassa integrazione generosa, una dignitosa previdenza sociale), ma ora la loro zona d’intervento è sparita, e con essa il loro bastione. Alle elezioni municipali di giugno l’astensione e il voto per il Movimento 5 stelle (ostile ai migranti) hanno conquistato i quartieri operai della zona occidentale. Il 52 per cento degli elettori non è andato a votare, mentre il 21 per cento dei votanti ha scelto i cinquestelle.
Ma i sindacalisti non abbandonano le loro convinzioni. Da qualche mese la Fiom di Genova si è schierata dalla parte dei migranti, tra le altre cose aiutando i dodici richiedenti asilo accolti nell’ex scuola di Multedo (una decisione contestata con diverse proteste nel quartiere). “Siamo intervenuti nel silenzio assoluto della maggior parte di partiti politici”, sottolinea Armando Palombo. “I calcoli elettorali gli impediscono di prendere una posizione sull’argomento. Ma per noi la realtà dei fatti è chiara: oltre al dovere morale di accogliere queste persone, siamo convinti che i migranti appartengano alla nostra stessa classe. Più in generale, l’Italia ha bisogno di migranti, perché vive un inverno demografico…”.
Resistenza e fatti allarmanti
Il sindacalista garantisce di aver perso solo cinque tesserati a causa di questa posizione, ma non nasconde la sua amarezza davanti al livello della campagna elettorale italiana. “Si parla di tutto tranne che dei diritti dei lavoratori. La destra ha addirittura proposto cure gratuite per cani e gatti! Il problema è che non esiste una differenza sostanziale tra destra e sinistra. Sui migranti la destra soffia sul fuoco per guadagnare voti, la sinistra tace per paura di perderne. Ma in fondo propongono la stessa cosa, così come sul diritto del lavoro: il Pd ha fatto riforme che oggi rinnega, mentre la destra difende lo stesso approccio verso la liberalizzazione del mercato del lavoro”. Palombo è meno pessimista rispetto all’avanzata dei neofascisti. “I fascisti sono sui social network, sui mezzi d’informazione. Ma politicamente è un fenomeno che a Genova non esiste”.
Eppure, negli ultimi mesi, a Genova si è verificata una serie di fatti allarmanti, dall’apertura di un locale dei neofascisti di CasaPound al tentato omicidio compiuto da militanti del partito contro un militante di sinistra che attaccava manifesti nella zona, passando per l’opposizione dei residenti all’accoglienza dei profughi nella scuola di Multedo.
In effetti la resistenza contro il fascismo ha sempre caratterizzato la città. Con i colori della Cgil, le foto raccontano la storia di una Genova impegnata da sempre contro la minaccia nera. Prima città italiana a liberarsi dalle forze dell’Asse nel 1945, Genova è la città che nel 1960 si è opposta all’organizzazione del congresso del partito neofascista dell’epoca, il Movimento sociale italiano (Msi), ed è stata l’ultima grande città italiana a restare impermeabile agli ultimi arrivati del movimento neofascista.
La svolta a destra di Genova preannuncia ciò che potrebbe accadere su scala nazionale il prossimo 4 marzo
Solo a novembre CasaPound ha aperto anche qui la sua sede, dopo una serie di manifestazioni della rete antifascista della città. Un altro gruppuscolo neofascista, Lealtà e azione, cerca da mesi di aprire una sede. Ogni sabato gli esponenti del collettivo Genova antifascista si riuniscono per impedirlo.
Franco Grondona rifiuta di credere a una crescita del razzismo. “Secondo me il fascino che la popolazione sente nei confronti dell’estrema destra non è legato al razzismo, ma alla paura di perdere il poco che si ha. È un’ostilità verso l’altro che minaccia il delicato equilibrio economico di ognuno. I fascisti hanno semplicemente saputo sfruttare questa paura”.
Più di ogni altra città italiana, Genova incarna l’oscillazione tra l’intervento economico statale e il nulla, con la sensazione di declassamento che ne consegue. È da tempo che qui non esiste più una prospettiva di crescita. I giovani diplomati cercano lavoro altrove. “Genova è diventata una città di pensionati e di assistiti”, spiega Donatella Alfonso, giornalista di Repubblica e autrice di diversi saggi sulla storia di Genova. “Le persone si sono trovate senza lavoro ma non necessariamente senza denaro. La città ha ricevuto ingenti fondi per l’organizzazione di eventi, come dimostra il caso della nomina a capitale europea della cultura del 2004. In totale in dodici anni Genova ha ricevuto circa un miliardo di euro. Quando pensiamo alla città com’è adesso, abbiamo l’impressione che tutto sia fermo, e questo rafforza la sensazione di declino. Abbiamo dati sullo sviluppo simili a quelli dell’Italia meridionale, tradizionalmente molto più povera”.
Tempi lontani
Anche qui, questa evoluzione non ha favorito i partiti politici tradizionali, ma il fallimento del Pd è più lampante che altrove. Alle municipali di giugno il partito di Matteo Renzi ha perso il controllo del comune a beneficio della destra berlusconiana, alleata con la Lega nord. In quello che per decenni è stato un feudo del Partito comunista (Pci), la sconfitta in un contesto di astensione galoppante – 57 per cento al secondo turno – non ha solo un valore simbolico. Genova è un laboratorio politico. La svolta a destra, per la prima volta nella sua storia, preannuncia ciò che potrebbe accadere su scala nazionale il prossimo 4 marzo.
“Con la fine del Partito comunista è stato necessario convincere gli elettori a sostenere il nuovo Partito democratico”, ricorda Giuliano Giuliani. “Poi con l’arrivo di Matteo Renzi è stato necessario convincerli a non cambiare orientamento. Alla fine è arrivata la nausea, il disgusto. Renzi non ha fatto altro che mentire e approvare provvedimenti contro i lavoratori. La classe lavoratrice è stata la prima a essere tradita. Il Pd non rappresenta più la sinistra. D’altronde la classe dirigente del partito è ormai composta da ex democristiani, più furbi degli ex comunisti e capaci di riconquistare il potere. La disaffezione dell’elettorato tradizionalmente legato al partito è la conseguenza logica di tutto questo”.
Matteo Renzi, segretario del Pd, è stato presidente del consiglio tra il febbraio 2014 e il dicembre 2016, quando il fallimento del referendum costituzionale lo ha costretto a dimettersi. In ogni caso la sua strategia ha segnato l’intera legislatura. Il suo Jobs act, in particolare, ha messo fine alle garanzie del contratto a tempo indeterminato.
Militanti disillusi
I quartieri occidentali di Genova sono l’unica area della metropoli in cui il Pd ottiene ancora una larga maggioranza di voti. All’interno della sezione del Pd di Sestri Ponente constatiamo la difficoltà di portare avanti la campagna elettorale in un momento in cui il partito sembra finito in una spirale di fallimenti a Genova e nel resto della Liguria (anch’essa persa a beneficio della destra due anni fa).
“Non voterò più”, ammette il militante Olindo Repetto. “Se il partito ha perso alle ultime comunali è perché voleva perdere. Ha governato malissimo Genova e non ha mantenuto nessuna promessa”. Repetto, iscritto al Pci quando aveva 14 anni (oggi ne ha 71), osserva con amarezza l’evoluzione dei socialisti europei. “Non voglio fare la fine del Partito socialista francese, tanto vale diventare macroniano!”. Il Pd italiano è sulla stessa via del Partito socialista francese? “C’è un rischio evidente che sia così. Il risultato delle elezioni ci darà la risposta. Di sicuro accadrà qualcosa che il Pd e i suoi dirigenti non potranno ignorare”.
“Quanti deputati avranno nella circoscrizione di Genova? Tra zero e meno uno”, sostiene Repetto, semiserio. La nuova legge elettorale, estremamente complessa, divide la Liguria in sei circoscrizioni, che eleggeranno sedici deputati (sei con lo scrutinio uninominale maggioritario e dieci con il proporzionale) e otto senatori (tre con il maggioritario, cinque con il proporzionale).
I tre militanti che abbiamo incontrato condividono la stessa opinione: a Genova i due seggi assegnati con il maggioritario andranno ai cinquestelle. Il Pd salverà la faccia con il proporzionale, con liste che non contengono nessun candidato genovese.
È lontano il tempo in cui il Partito democratico contava sette sezioni e cinquemila iscritti solo a Sestri Ponente, per non parlare dell’epoca del Pci, che era arrivato ad avere 42mila iscritti a Genova. Oggi a Sestri Ponente è rimasta una sola sezione, con 170 iscritti.
Marco Pinna, 61 anni, ex informatico che lavorava al faro e oggi libero professionista, è il segretario della sezione. Pinna è orgoglioso dell’operato del governo ed elenca i provvedimenti voluti dal Pd per i più svantaggiati (reddito di sussistenza di 534 euro al mese per le famiglie minacciate dalla grande povertà), le donne, i diritti civili (riconoscimento delle unioni civili, facilitazione delle procedure di divorzio). Ma Pinna non dice nulla sul diritto al lavoro. Se il Pd è in calo, spiega, è perché non ha saputo far conoscere le misure “positive” che ha varato.
Mauro Montauti, un altro militante ed ex lavoratore dell’Ilva recentemente pensionato, sottolinea la personalità divisiva di Renzi e il suo modo autoritario di decidere senza consultare i corpi intermedi. “In passato c’era un’identificazione degli elettori con il partito. Non avevamo bisogno di spiegare le cose. Oggi è diverso. Il nostro problema è che discutiamo tra noi senza parlare al mondo esterno”.
Creazione tardiva
L’autocritica, però, si ferma qui. Sulle problematiche di fondo e la svolta al centro delle politiche economiche adottate dal 2013 a oggi, i tre militanti non si esprimono. Nemmeno sul possibile rinnovamento dei quadri del partito. Il ringiovanimento e la parità di genere non sembrano far parte delle loro riflessioni. Bisogna dire che il Pd genovese, a immagine della direzione nazionale del partito, è impelagato in una serie di lotte interne e non ha superato le divisioni esplose alla vigilia delle elezioni municipali.
A che serve fare campagna elettorale quando l’esito è già scritto?
Al livello nazionale, il disaccordo sulla figura di Renzi ha provocato due scissioni, nel 2015 e nel 2016, che hanno profondamente indebolito il partito. Questa “fronda” dell’ala sinistra si è compattata alla vigilia delle elezioni in una nuova formazione, Liberi e uguali.
Ritorno a sinistra o coalizione a fini elettorali? I pareri sono discordanti. Quello di Salvatore Palidda è netto. Seduto nella trattoria sociale di Vico Mele, piccolo locale nel centro di Genova aperto per reinserire gli esclusi, il ricercatore s’innervosisce. “Liberi e uguali è una creazione tardiva. I suoi esponenti sono corresponsabili delle politiche condotte dal governo Renzi, hanno rotto con il segretario troppo tardi. Ma le elezioni non sono una bacchetta magica. Gli elettori non votano all’improvviso per un partito appena nato”.
Un segno dell’estraneità di questa nuova configurazione politica? A Genova i partiti hanno fatto poca campagna elettorale: a parte piccoli cartelloni sugli autobus, non si vedono manifesti politici. Non è stato programmato nessun comizio importante. È come se i partiti avessero scelto di mantenere un profilo basso, perché non hanno più molto da proporre. O magari è perché l’ingranaggio è stato truccato, con una legge elettorale progettata per favorire le coalizioni e bloccare l’avanzata dei cinquestelle. Tutti pensano che il Pd e la destra berlusconiana alleata della Lega formeranno una grande coalizione subito dopo le elezioni. A che serve fare campagna elettorale quando l’esito è già scritto?
Eppure, a Genova, i temi attorno a cui costruire un dibattito non mancano. Da quando la destra ha conquistato il municipio, il comune ha creato una linea telefonica per permettere ai cittadini di denunciare anonimamente le occupazioni illegali degli alloggi. Nel centro storico la presenza della polizia è aumentata. Nel frattempo i problemi reali della città, in particolare quello dei rifiuti (da quando la discarica di Genova è stata chiusa per volere della magistratura), vengono palesemente ignorati. Quanto al pericolo neofascista, il potere non si sbilancia…
Qualcosa sta cambiando nel campo dei movimenti sociali. L’arrivo di CasaPound a Genova ha rianimato i collettivi, dalla consapevolezza di aver perso alcuni quartieri a un risveglio dal sonno provocato dalla repressione del 2001. “Comincia a emergere una risposta ai fascisti”, spiega un attivista del collettivo Genova antifascista. “Noi siamo attivi all’interno di una rete nazionale e internazionale più forte che mai”.
Il 3 febbraio, Genova antifascista ha organizzato insieme ad altre associazioni e sigle sindacali una grande manifestazione antifascista. Il corteo è passato per piazza Alimonda, teatro dell’omicidio di Carlo Giuliani. In quel momento Giuliano ha preso il microfono. “In questa piazza non possiamo parlare solo della violenza fascista. C’è anche la violenza dello stato che manganella, che uccide, che attenta alla dignità del paese. Non dobbiamo dimenticarlo”.
Una macchia per l’Italia contemporanea
Nella piazza, una targa commemorativa rende omaggio a Carlo Giuliani, ragazzo. A diciassette anni dalla sua morte, c’è ancora chi viene qui a deporre fiori e messaggi. “Ognuno di noi deve dare qualcosa per fare in modo che nessuno sia costretto a dare tutto. Un altro mondo è possibile”, ha scritto Claudia.
Nel 2003 l’inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani si è conclusa senza esito. Non c’è stato un processo. “Come se non fosse accaduto niente”, si rammarica Giuliano. Ma la storia di Genova 2001 non è solo la storia di un padre che ha perso un figlio. È anche la storia dei manifestanti torturati dalle forze dell’ordine in una caserma, la storia delle prove preconfezionate dalle autorità contro i giornalisti, la storia delle disgustose violenze della polizia. Una macchia per l’Italia contemporanea che non è stata ancora cancellata.
I casi di violenza commessi dagli agenti sono stati esaminati. Le parti civili hanno vinto contro lo stato italiano, e nei casi arrivati fino alla Corte europea dei diritti umani è stata riconosciuta la tortura (la giustizia italiana l’ha fatto solo nel 2012, attraverso la corte di cassazione). Ma diciassette anni dopo i fatti, il ministero dell’interno italiano non ha ancora versato per intero le somme chieste dalle vittime e continua a negoziare sulla cifra. I principali responsabili tra le forze di polizia sono rimasti al loro posto, quando non sono stati promossi.
Questa repressione feroce e il lungo diniego che ne è seguito “hanno aperto profonde divisioni all’interno dei movimenti sociali genovesi sulle risposte da dare al potere”, racconta l’avvocata Laura Tartarini, che ha difeso una sessantina di persone al processo su Genova 2001. “Alcuni si sono radicalizzati e hanno abbandonato la pratica della disobbedienza civile pacifica. Altri, molto attivi nel 2001, si sono ritirati dalla lotta perché traumatizzati”.
Laura Tartarini proviene dalla mobilitazione anti G8. La sua battaglia quotidiana ruota attorno al rispetto dei diritti umani ed è convinta che il Pd abbia perso la sua identità di sinistra basando la sua politica sulle libertà civili “anziché sul lavoro, gli stipendi, le scuole e i servizi pubblici. Nel frattempo le imprese hanno chiuso, la disoccupazione è aumentata. Il blocco sociale che costituiva la base elettorale del Pd è stato massacrato. Ma il problema non riguarda solo la sinistra”, spiega Tartarini. “La fiducia dei cittadini nei partiti politici è crollata e a questo si è aggiunto un processo europeo sempre più contestato. Di fatto, oggi lo stato nazionale è stato privato della sua capacità decisionale”.
Le persone sembrano interessate solo alla sicurezza del quartiere. Assistiamo all’avvento della politica della tranquillità
A un centinaio di metri dal memoriale di piazzale Alimonda c’è la nuova sede di CasaPound. Secondo il responsabile della sezione la scelta della sede non ha alcun legame con i fatti del 2001, ma ci tiene a precisare che i militanti hanno “tolto il locale a uno straniero. Prima qui c’era un minimarket gestito da un pachistano”.
In questo quartiere della classe media nella zona orientale di Genova, Foce, la coalizione tra destra ed estrema destra ha ottenuto la maggioranza dei voti alle ultime elezioni, con il 54 per cento. Il Movimento 5 stelle è ancora poco presente, ma in ascesa (12 per cento), mentre il primo partito è quello dell’astensione (52 per cento). Terreno fertile per gli estremisti di CasaPound.
Nel locale, dove spicca un immaginario neofascista, alcuni giovani discutono attorno a un bancone. Discreta ma ben visibile è la presenza di immagini di Mussolini. Una foto del duce in visita ufficiale a Genova nel 1938 è incorniciata e appesa al muro. “Ci definiamo come fascisti del terzo millennio”, dichiara orgoglioso il responsabile, Christian Corda. Mentre parla, Corda gonfia il petto muscoloso. Agli esponenti di CasaPound piace dare dimostrazioni di forza e si vantano anche di distribuire cibo ai più poveri, ma nessuno nel quartiere li ha mai visti organizzare una raccolta di prodotti alimentari. In ogni caso, nessuno protesta contro la loro presenza.
“Non vedo perché considerarli pericolosi”, ci dice Luca Murru, imbianchino e artigiano che incrociamo in un caffè per il pranzo. Murru voterà per Berlusconi alle elezioni. “Ha già abbastanza denaro ed è abbastanza vecchio da non aver più niente da chiedere. Credo sinceramente che farà del bene al paese. E con le sue imprese da lavoro a 50mila persone!”. Luca, 39 anni, racconta una vita difficile, tra il 40 per cento di tasse da libero professionista, un affitto da 650 euro, una moglie che lavora fino alle 20 tutte le sere e una figlia che deve affidare alla madre dopo l’uscita da scuola. “La sinistra assegna la priorità a persone che hanno meno diritti di me”, spiega. Nel 2013 ha tentato la fortuna a Londra. Ha resistito tre mesi. “Ritrovarmi a lavare i piatti a trent’anni non mi è piaciuto”.
Laura Tartarini ci ha confessato di avere molta più paura del “cambiamento della mentalità, risultato di un processo in corso da anni, che dell’apertura di una sede di neofascisti. Le persone sembrano interessate solo alla sicurezza del loro quartiere. Assistiamo all’avvento della politica della tranquillità”.
All’ospedale Galliera, qualche giorno più tardi, Giuliano Giuliani si presenta con i candidati di Potere al popolo e una decina di militanti per distribuire volantini. “L’accesso per tutti al sistema sanitario pubblico fa parte delle nostre priorità”, spiega Giuliano, continuando a sorridere nonostante il freddo di un tardo primeggio invernale.
Il volantino del partito chiede la cancellazione del ticket ospedaliero, il blocco di tutte le privatizzazioni del sistema sanitario e la lotta contro la speculazione delle aziende farmaceutiche. I pazienti prendono il volantino con educazione, ma non si fermano a parlare. “La nostra campagna si rivolge alle persone che non votano”, spiega Mauro Servalli, candidato trentenne del partito in Liguria. “Non siamo coinvolti in una battaglia a sinistra con Liberi e uguali, che sono compromessi dal loro rapporto con il Pd. Vogliamo ritrovare gli elettori che hanno perso qualsiasi fiducia nei partiti politici”.
Al momento di andare via, i più giovani del gruppo parlano del prossimo appuntamento: sarà a Ventimilgia, una delle ultime città della regione ancora governata dal Pd, dove è previsto un incontro con i No border tra qualche giorno. “Ci stiamo abituando a comportamenti orribili ai danni dei migranti”, aggiunge Mauro Servalli. “Viviamo una guerra tra poveri e tra i popoli”. Secondo il candidato, migranti e italiani fanno parte di un unico gruppo: “Le vittime del potere attuale”.
Questo articolo è stato pubblicato su Mediapart. Traduzione di Andrea Sparacino.
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