13 gennaio 2017 13:06

Per prima cosa ci fanno firmare un foglio in cui accettiamo di non fotografare i volti dei residenti e di non divulgare le loro generalità. Siamo appena entrati nel centro di riabilitazione di Bicutan, a Taguig City, una delle 17 zone in cui è divisa Metro Manila, quasi 13 milioni di abitanti in un’area di oltre 600 chilometri quadrati. Il centro di riabilitazione è tra i più grandi delle Filippine ma i suoi 550 posti letto non sono più assolutamente sufficienti. Dal 30 giugno 2016, quando Rodrigo Duterte si è insediato alla presidenza delle Filippine e ha dichiarato “guerra alla droga”, più di un milione di persone si è “arreso” autodenunciandosi alle forze dell’ordine e riempiendo carceri e centri di riabilitazione oltre la loro capienza massima.

Secondo il ministero della salute solo il 9 per cento di loro avrebbe bisogno di trattamenti per uscire dalla dipendenza e per i parametri dell’Organizzazione mondiale della sanità la percentuale scenderebbe addirittura sotto l’1 per cento. Ma i filippini hanno paura.

Duterte l’aveva annunciato in campagna elettorale: se fosse stato eletto, i cadaveri dei drogati avrebbero “ingrassato i pesci della baia di Manila”. E il presidente-sceriffo, quello che appare sempre nell’atto di sferrare un destro e che si è recentemente vantato di averli uccisi “personalmente” quand’era sindaco di Davao, è stato di parola. In sei mesi circa seimila filippini hanno perso la vita durante le operazioni di polizia o quelle che sono chiamate “esecuzioni extragiudiziali”.

La metà della media mondiale
Una media di 33 vittime al giorno che non ha nulla da invidiare ai veri e propri campi di battaglia dell’epoca contemporanea. I killer arrivano in moto, con il volto coperto. Giustiziano sul posto. Oppure si portano via “drogati” e “spacciatori”. Qualche giorno dopo i loro corpi senza vita vengono scaricati ai margini di una strada qualsiasi. La testa avvolta nel cellophane e un cartello a monito per la comunità: “Non fate come me”.

‘Ormai siamo alla psicosi collettiva, non si rendono conto che la dipendenza è un problema serio che va trattato con strumenti adeguati’

“Prima di lavorare qui, non avevo idea di quanto fosse diffuso il problema della droga”, ci confida un dipendente del centro di riabilitazione che preferisce rimanere anonimo. “E anche oggi non ne sono così convinto. Molte delle richieste che ci arrivano sono di persone che si sono fatte una canna in gioventù o utilizzatori occasionali che hanno paura di essere segnalati. Ormai siamo alla psicosi collettiva, non si rendono conto che la dipendenza è un problema serio che va trattato con strumenti adeguati”. I dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) gli danno ragione. Solo il 2,3 per cento dei filippini fa uso di droghe. Circa la metà della media mondiale.

“Bisogna continuamente scremare le richieste”, ci conferma Jerwin Sumayo, uno degli impiegati amministrativi del centro. “Sono in molti a volere entrare semplicemente per nascondersi a killer e forze dell’ordine. Il nostro regolamento prevede un lungo processo di verifiche mediche e giuridiche prima dell’accettazione, ma le aziende private possono raccomandarci direttamente i loro impiegati. E ne hanno tutto l’interesse. Devono garantire al governo che il loro personale sia ‘pulito’”.

Dal verde al bianco
Il centro di Bicutan, è uno dei 44 centri di riabilitazione riconosciuti dal governo su tutto il territorio nazionale. Si trova all’interno di un gigantesco campus della polizia dove ci sono una scuola, una prigione, diversi edifici amministrativi e il poligono di tiro. Gli spari sono un sottofondo quasi costante e le misure di sicurezza sono massime. All’ingresso un cartello ricorda che bisogna vestirsi appropriatamente per entrare: niente canottiere, vestiti aderenti o pantaloni corti.

Un po’ come in chiesa, i visitatori non possono entrare a spalle scoperte o indossare cappelli e orecchini. Il centro di riabilitazione è l’unica parte del campus che non è sotto il controllo delle forze dell’ordine: dipende direttamente dal dipartimento della salute. All’interno si trovano una piccola scuola, un campo da pallacanestro, una mensa, cinque dormitori per i maschi, uno per le femmine e uno per i minori.

I residenti del centro lavano i piatti, il 24 novembre 2016. (Nicola Longobardi)

Da circa sei mesi questo centro ha una media di trenta ingressi e meno di dieci dismissioni al giorno. A novembre, quando l’abbiamo visitato, ospitava più di 1.300 pazienti, più del doppio della sua capacità: il più giovane aveva dieci anni, il più vecchio 70. Le donne erano 113. Nella tabella aggiornata quotidianamente con le presenze, si contavano 22 minori. Non ce li hanno fatti incontrare, ma erano tutti classificati come “bambini di strada”. Tutti gli “internati” devono indossare una maglietta bianca e pantaloncini di cotone che variano di colore a seconda dello stato del singolo e del suo percorso sulla via della riabilitazione. Si va dal verde che contraddistingue chi è appena entrato, al bianco di chi sta per uscire.

“Bisogna credere nel cambiamento”, ci ripetono quelli che il governo ha classificato come “tossicodipendenti”. E ogni volta che li incontriamo durante la nostra visita, ci salutano in coro. Scopriremo più tardi che il loro comportamento è attentamente monitorato: se dimenticano di salutare i visitatori o la maglietta è infilata male nei pantaloni, dovranno chiedere scusa. “Umiltà” c’è scritto a monito sui muri dei dormitori. O ancora: “Meglio comprendere che essere compresi”. Tra di loro si chiamano “fratelli” perché, come ci spiega ancora Sumayo, “questa deve essere una grande famiglia che fornisca loro un modello alternativo e corretto. Fa parte della terapia. Gran parte dei problemi con la droga, infatti, deriva da abitudini e relazioni che hanno radici nelle famiglie d’origine dei singoli”.

Nel campo non sono ammessi oggetti di metallo, quindi si mangia con cucchiai di plastica o con le mani

Il periodo minimo di permanenza è di sei mesi. Per accedere si paga una quota una tantum di 87 euro e una retta mensile che, a seconda del reddito personale, può variare dai 15 ai 95 euro. Chi arriva qui, difficilmente abita nei sovrappopolati slum di Manila. In un paese dove le famiglie sono per la maggior parte numerose e monoreddito e dove il salario medio è di poco meno di 285 euro al mese, è una scelta che non tutti possono permettersi. “Siamo troppi per quello che paghiamo”, si lamenta Hernandez, un uomo di 34 anni che è stato mandato qui dal padre. “Ma i costi dei centri di riabilitazione privati, veri e propri hotel dotati di personale medico, partono dai 500 euro al mese. Bisogna essere ricchi per andarci!”.

Ci racconta la sua quotidianità da quattro mesi a questa parte. Sveglia alle 5 di mattina, ginnastica di gruppo e pulizia degli ambienti comuni. Il resto del tempo è dedicato a riunioni, seminari e gruppi di autoaiuto. Il pasto è unico per tutti. Nel campo non sono ammessi oggetti di metallo, quindi si mangia con cucchiai di plastica o con le mani. Per chi ha la disponibilità economica è possibile comprare altri generi alimentari allo spaccio all’interno del campo. Alle nove di sera si spengono le luci e si chiudono i cancelli dei dormitori. La mezz’ora prima di andare a dormire è dedicata alla scrittura di un diario personale che sarà consegnato agli psicologi. “È come stare in prigione, non c’è niente da fare e dobbiamo sempre controllare i nostri movimenti e le nostre emozioni”, conclude Hernandez prima di incolonnarsi ordinatamente con i compagni di dormitorio per andare a ritirare il rancio quotidiano.

Un settore in espansione
Hernandez, come la quasi totalità degli internati con cui parliamo, prima di cominciare questo percorso di rifiuto delle droghe lavorava in un call center. L’esternalizzazione dei servizi nelle Filippine è un settore economico in espansione e nel 2016 ha garantito 1,3 milioni di posti di lavoro. Si tratta soprattutto di aziende straniere che delocalizzano qui l’assistenza ai clienti e la riparazione delle merci. Il salario base offerto è di circa 270 euro, ma vengono continuamente promessi premi e incentivi. “Con gli straordinari si può arrivare a uno stipendio più che decente”, ci conferma Conception, 28 anni, che ha provato per la prima volta la metanfetamina solo un anno fa, quando ha cominciato a uscire con i colleghi. “Ma bisogna lavorare come matti”, aggiunge. Gli eccitanti aiutano ma nell’era Duterte le aziende conducono periodici test sull’assunzione di droghe. Com’è ovvio, preferiscono segnalare qualche dipendente piuttosto che entrare in conflitto con il governo.

Il dottor Amelito Javier, che dal 2009 dirige uno dei più importanti centri per chi fa abuso di droga della metropoli di Manila, ci spiega inoltre che dall’inizio della “guerra alla droga” si è registrato un aumento del 10 per cento tra coloro che si sottopongono spontaneamente ai test. “Nessuno vuole essere inserito nelle liste. Chi può cerca di dimostrare di non far uso di droga, o almeno la volontà di smettere”. In teoria le liste di cui parla il dottore servono a segnalare alla polizia chi fa, ha fatto uso o spaccia droghe ma, come ci spiega Jacqueline De Guia della Commissione per i diritti umani delle Filippine, “non sono pubbliche e non si conoscono i criteri con cui vengono compilate”.

Sono di fatto uno strumento che semina panico e terrore. “Troppo spesso sono basate su delazioni o confessioni raccolte in assenza di un avvocato”, continua De Guia, “nessuno può escludere con certezza di farne parte”.

Residenti del centro giocano a ping pong, il 24 novembre 2016. (Nicola Longobardi)

Dai bassifondi fino ai palazzi del potere, non c’è ambiente che possa dormire sonni tranquilli. Il presidente ha perfino annunciato pubblicamente che avrebbe in mano una lista di cinquemila alti funzionari pubblici collegati al traffico di droga. Per ora l’unico nome che ha esplicitato è quello della senatrice Leila de Lima, a capo della Commissione per i diritti umani quando Duterte era ancora sindaco di Davao e si cominciavano a raccogliere informazioni sugli squadroni della morte che operavano impuniti nella sua città. Per tutti gli altri la minaccia è chiara: chiunque è nella lista è un potenziale obiettivo della guerra alla droga, e il mandato del presidente è quello di eliminarlo. La polizia assicura che chiunque si “arrenda” e si sottoponga volontariamente alla riabilitazione sarà depennato e avrà salva la vita. E, anche se non sono rari i casi di cittadini ritrovati morti dopo che si erano “arresi”, sono in molti a provare questa strada.

Ha fatto così anche Maite che a 36 anni ha già cinque figli e due case. La sua storia però è diversa dalle altre che ci raccontano all’interno del centro. Entra ed esce dai centri di riabilitazione da quando ha 16 anni. Spacciando shabu, la metanfetamina dei poveri, si è costruita un piccolo impero. A sentir lei ci sono stati periodi in cui ha guadagnato più di 50mila euro al mese. Essere donna molto spesso l’ha protetta dai controlli, ma da quando il presidente ha lanciato la guerra alla droga è diventato tutto troppo rischioso. Ora vuole una vita e un lavoro “normale”. Parla inglese decentemente e ha già fatto qualche colloquio. Non le sarebbe difficile trovare lavoro a Manila, nel settore dei servizi. Così ha deciso di “redimersi”.

Oggi è una delle poche donne ospitate dal centro. Il loro dormitorio è in un angolo della struttura, completamente nascosto alla vista da un cancello di ferro sempre chiuso. Il custode, che finora non ci ha lasciato soli un momento, questa volta non assiste all’intervista. Forse per questo Maite ci racconta tanto di sé. “Questo è un buon posto per sparire dalla circolazione per un po’ e nel frattempo ripulirsi”, ci confida poco prima che la richiamino a partecipare con le altre alle consuete attività. “La maggior parte delle persone che entra qui dentro sta scappando da qualche cosa”. E, ci verrebbe da aggiungere, economicamente se lo può permettere.

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