19 aprile 2022 12:59

La maggior parte dei mezzi d’informazione ha descritto l’Ucraina come un paese saldamente unito contro l’aggressione della Russia. Com’è evidente, le azioni del presidente Vladimir Putin, contrariamente ai suoi obiettivi, hanno consolidato un’identità ucraina precedentemente eterogenea. La condotta coraggiosa del presidente Volodymyr Zelenskiyj, che è diventato fonte d’ispirazione per gran parte del nostro mondo alla deriva e senza leader, ha ricompattato la popolazione intorno alla bandiera blu e gialla. Secondo alcuni sondaggi il suo indice di gradimento, piuttosto basso prima della guerra, avrebbe superato il 90 per cento. Anche molte persone di lingua russa in Ucraina, che in precedenza provavano risentimento e sospetto per il loro governo di Kiev, hanno cambiato schieramento dopo che i missili di “liberazione” di Mosca hanno distrutto le loro case.

Anche se è vero che la guerra ha sanato divisioni sociali e politiche di lunga data nel paese, la storia sul terreno rimane più complicata, come ho scoperto in un recente viaggio in una remota e ancora pacifica regione dell’Ucraina, conosciuta storicamente come Bessarabia meridionale o in alternativa Budjak (nel mio articolo userò semplicemente Bessarabia, in accordo con le preferenze locali e per amore di brevità). I mezzi d’informazione, comprensibilmente, hanno la tendenza a concentrarsi sui luoghi dove si sono abbattuti terrore, morte e rovina, città come Mariupol, Charkiv e Buča. Ma quanto accade sul “fronte tranquillo”, lontano dalle esplosioni, può rivelarsi altrettanto significativo.

La Bessarabia meridionale – il nome Budjak deriva da una parola turca che significa “terra di confine”– è una striscia di territorio nell’estremità sudoccidentale dell’Ucraina e rientra amministrativamente nel distretto di Odessa. Delimitata dal fiume Dnestr, dal mar Nero, dal Danubio e dalla Moldova, si snoda come un’appendice sulla mappa geografica: una sorta di cugino meno affascinante della Crimea. È la regione etnicamente più diversificata del paese, abitata da ucraini e russi, così come da grandi comunità di bulgari, moldavi, gagauzi (cristiani ortodossi di lingua turca), albanesi e lipovani (dissidenti religiosi venuti dalla Russia nel diciottesimo secolo, noti anche come “vecchi credenti”). Anche se ogni gruppo ha conservato con cura la propria cultura e la propria lingua, negli ultimi due secoli il russo si è affermato come lingua franca.

Povertà e risentimento
La storia della Bessarabia è a dir poco contorta. Fu conquistata dall’impero russo all’inizio dell’ottocento, dopo una guerra con gli ottomani, e fu ufficialmente chiamata Bessarabia, una definizione che comprendeva anche la maggior parte dell’odierna Moldova. La popolazione di tatari nogai fu espulsa e sostituita da coloni cristiani, molti dei quali provenivano da territori sotto il dominio ottomano. Nel 1918, nel caos successivo alla rivoluzione bolscevica, la regione fu annessa alla Romania, che nutriva sogni espansionistici. All’inizio della seconda guerra mondiale i sovietici la annessero brevemente, i romeni la ripresero, ma i sovietici la riconquistarono tre anni dopo. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, la Bessarabia meridionale rimase entro i confini dell’odierna Ucraina (il resto della regione andò alla Moldova).

Incoraggiata dall’intelligence russa, la Bessarabia ha avuto un suo movimento separatista nel 2014 e 2015

L’esistenza della Bessarabia all’interno dell’Ucraina indipendente non è stata priva di difficoltà. Come altre regioni del paese – e come nella maggior parte dei territori ex sovietici – è stata devastata dal tracollo economico degli anni dopo la fine del socialismo, ma in misura ancora maggiore. La chiusura d’industrie come quella della conservazione del pesce e la dissoluzione delle fattorie collettive hanno lasciato gran parte della popolazione in condizioni di povertà e risentimento. Loschi imprenditori, spesso con legami con l’ex partito comunista e il Kgb, hanno trasformato la regione in feudi personali. Lontana dalle preoccupazioni di Kiev, la Bessarabia è stata lasciata sola, abbandonata e trascurata.

È in un contesto del genere che la nostalgia per l’Unione Sovietica ha preso piede, aggravata dalla distanza sociale e politica da Kiev. I partiti filorussi hanno costantemente dominato le elezioni nella regione, proprio come nell’est del paese, e i mezzi d’informazione russi si sono affermati come principale fonte di notizie. La rivoluzione di Maidan nel 2014 è stata accolta con una certa ostilità, e molti hanno approvato l’annessione della Crimea voluta da Putin. La recente rimozione del russo dalle cosiddette “lingue regionali”, e un disegno di legge di riforma dell’istruzione che richiede alle scuole di insegnare in ucraino, sono diventati a loro volta temi galvanizzanti, alimentati dalla propaganda del Cremlino. Incoraggiata dall’intelligence russa, la Bessarabia ha avuto un vero e proprio movimento separatista nel 2014 e 2015, che mirava a istituire “una repubblica popolare” sul modello di quelle di Donetsk e Luhansk. Ma la caotica guerra nel Donbass ha notevolmente smorzato l’entusiasmo. Per non correre rischi, i servizi di sicurezza ucraini hanno agito rapidamente e hanno stroncato la cospirazione sul nascere.

Ritrovato patriottismo
Due settimane dopo l’inizio della guerra attuale, ho preso un traghetto per attraversare il Danubio dalla Romania alla Bessarabia. I miei primi contatti sul posto erano persone del posto filoucraine, che in alcuni casi avevo già incontrato in precedenti visite nella regione. Erano tutte prese da un ritrovato senso di patriottismo e dalla determinazione di resistere all’aggressione russa a qualsiasi costo.

Il mio amico, Ivan Rusev, è un ucraino di origine bulgara e uno dei più coraggiosi e impegnati ambientalisti che io conosca, e insieme alla collega Iryna Vykhrystyuk, direttrice del Parco nazionale delle lagune di Tuzly (sulla costa del mar Nero della Bessarabia), hanno spostato i loro obiettivi dalla caccia ai bracconieri locali alla lotta contro un’invasione straniera. Yaroslav Kičuk, rettore dell’Università statale per le scienze umanistiche di Ismail, l’unica a sudovest di Odessa, ha trasformato i dormitori degli studenti in campi profughi e lavora 24 ore su 24 per aiutarli. “Solo adesso stiamo cominciando a diventare un paese unito, e a capire e valorizzare un’Ucraina libera e indipendente”, mi ha detto Kičuk. “L’attuale leadership russa ha fatto molto – tra virgolette – per aiutarci ad abbandonare le fedeltà di epoca sovietica e accelerare la formazione di una nazione ucraina”. Ho incontrato altre persone in Bessarabia – insegnanti, studenti, artisti, bidelli – che fanno del loro meglio per contribuire, in un modo o nell’altro, allo sforzo comune di guerra.

Ma, al di là di questi gruppi di patrioti, la Bessarabia mostra un altro volto, meno attraente. “Un pericolo rimane, specialmente nei villaggi, dove la presenza dello stato ucraino è debole e sono attive altre forze”, mi ha detto Kičuk, ammettendo che anche oggi, con la guerra che infuria, c’è chi continua a professare simpatie filorusse. Né ci si può fidare completamente dei politici locali, anche se hanno magari assunto una posizione filoucraina dall’inizio della guerra. “Molti dei politici di qui sono degli opportunisti”, mi ha detto Iryna Vykhrystyuk. “Cercano di capire chi è il più forte in un dato momento, l’aria che tira, e si adattano di conseguenza”.

Considerando la situazione in divenire, è difficile valutare l’attuale grado di divisione politica, ma secondo gli abitanti del luogo con cui ho parlato le spaccature sono profonde. Spesso i conflitti nascono all’interno di una stessa famiglia, e oppongono i giovani alle vecchie generazioni, in città come Ismail, un porto fluviale sul Danubio dove vivono molti ufficiali sovietici in pensione, e nelle comunità rurali. “Molte persone ora preferiscono non parlarne, ma se hanno avuto sentimenti filorussi fino a ieri, è molto difficile immaginare che abbiano improvvisamente cambiato idea”, mi ha detto Vyačeslav Todorov, un professore specializzato in geografia etnica della regione.

Un lontano brontolio
Effettivamente le campagne sono tutto un altro mondo. Ci sono andato da solo, a bordo della mia vecchia Ford Fiesta, su strade in condizioni così terribili da far sembrare che l’artiglieria russa fosse già passata da queste parti. In alcuni punti l’asfalto era così eroso e sventrato che i veicoli lo evitano, e con il tempo hanno creato strade sterrate che offrono una guida più agevole. Molti dei villaggi, ammesso che fosse possibile raggiungerli, erano isole di fatiscenza ottocentesca: strade non asfaltate, abitanti mal vestiti, oche e galline che vagavano liberamente. Alcune delle case a un piano erano belle, con le cornici delle finestre dipinte del tradizionale blu ucraino, ma altre erano gusci abbandonati, senza porte e con tetti sfondati. Era come se un qualche disastro si fosse abbattuto da queste parti prima della guerra. Avevo visto posti simili nella parte nordoccidentale della mia Bulgaria, la regione più povera dell’Ue, ma questo sembrava peggiore.

Forse non è sorprendente che in una periferia remota come la Bessarabia le feroci battaglie condotte in prima linea siano percepite come un brontolio lontano. Le persone con radici o parenti nella regione si sono trasferite qui da altre parti dell’Ucraina per motivi di sicurezza (anche nei villaggi più remoti la popolazione è raddoppiata). Alcuni di loro hanno certamente condiviso racconti di prima mano sugli orrori della guerra. Ma sono rimasto turbato nel sentire che nelle comunità locali prevale un atteggiamento ambivalente riguardo all’aggressione russa. Anche se l’Ucraina ha vietato i canali di notizie russi, molte persone continuano a seguirli attraverso le parabole satellitari o le trasmissioni provenienti dalla vicina Moldova. In diverse occasioni ho sentito le consuete argomentazioni: i diplomatici di Kiev dovrebbero cedere alle richieste russe; “una cattiva pace è meglio di una buona guerra”; la vita in Unione Sovietica era migliore. Alcune dichiarazioni erano meno prudenti. “Perché non organizzare qui un referendum per la nostra repubblica?”, mi ha detto Ivan, un ispettore di polizia in pensione di Odessa. “Il 90 per cento del mio villaggio la pensa come me. Forse questa repubblica potrebbe includere tutta la regione di Odessa”.

“Ho visto persone di qui litigare per le proprie opinioni politiche, ognuna cercando di avere ragione”, mi ha detto Sergej Dimitriev, il sindaco di Bolhrad, la principale città della comunità d’etnia bulgara in Bessarabia, durante un’intervista. “Cominciano a litigare e a insultarsi. Sono vicini che vivono letteralmente gomito a gomito. Questo potrebbe rivelarsi disastroso”.

La rinuncia alla complessità del dibattito pubblico ci espone ai pericoli di un circolo vizioso di narrazioni falsamente ottimiste

Può sembrare difficile comprendere tali divisioni, specialmente in un momento in cui il proprio paese è teatro di un orribile attacco, ma decenni d’isolamento sociale e politico, insieme alla lontananza geografica della Bessarabia da Kiev, hanno certamente contribuito. D’altra parte, ogni volta che il governo ha cercato di intervenire direttamente, le sue azioni sono state percepite dalla maggioranza degli abitanti locali, giustamente o meno, come troppo intrusive. È forse una delle ragioni, insieme alla marginalizzazione economica della regione, per cui Mosca è riuscita a radicarsi così profondamente: in una regione multietnica, il dominio imperiale ha sempre avuto più fascino di quello di uno stato-nazione centralizzatore e omologante.

Semplificare la narrazione
Credo che sia importante parlare di luoghi come la Bessarabia in questo momento, anche se possono sembrare fuori tema. La copertura giornalistica della guerra si è concentrata sulla sorprendente unità degli ucraini di fronte a un nemico comune, ma ci sono parti del paese in cui ribollono ancora delle forti, seppure silenziose, simpatie per Mosca. I redattori e i giornalisti occidentali tendono a ignorare queste storie perché complicano la narrazione principale, e qualsiasi complicazione, nell’attuale clima d’indignazione morale e di schieramenti chiaramente delineati, è ideologicamente sospetta e potrebbe anche essere bollata come propaganda filorussa. L’idea stessa di complessità è diventata sgradita perché è stata spesso usata dal Cremlino come strumento per addensare la nebbia della guerra. Allo stesso tempo, però, la rinuncia alla complessità del dibattito pubblico ci espone ai pericoli di un circolo vizioso di narrazioni falsamente ottimiste: lo stesso pericolo di cui sembra essere stato vittima Putin, circondato da collaboratori servili e spaventati all’idea di far scoppiare la bolla d’illusioni che il loro leader si è creato.

Esiste anche, io credo, un fattore di cui nessuno nei mezzi d’informazione occidentali ama parlare: regioni come la Bessarabia appaiono marginali e irrilevanti, poco spettacolari nel contesto della distruzione e del massacro in corso. Le ignoriamo, tuttavia, a nostro rischio e pericolo. Mano a mano che le armate russe spostano i combattimenti a sud del paese (tagliare l’accesso dell’Ucraina al mar Nero è stato generalmente giudicato uno dei principali obiettivi di Putin), anelli deboli come la Bessarabia potrebbero diventare un vero peso per Kiev. Le varie comunità etniche della zona hanno vissuto in relativa armonia finora, ma la pace (come la guerra ci ha insegnato ancora una volta) non dovrebbe mai essere data per scontata. E qualsiasi contagio in quella parte del paese potrebbe diffondersi alla vicina Moldova, che ha già i suoi problemi con la Transnistria (un protettorato, di fatto, di Mosca), e con la regione autonoma e fortemente filorussa della Gagauzia. Il diffondersi del conflitto sarebbe abbastanza disastroso.

Anche se la Russia si asterrà dall’escalation nucleare, il divide et impera rimarrà certamente una delle sue strategie più dannose, non solo in Ucraina ma anche in altre parti d’Europa. In Bulgaria, per esempio, le divisioni sulla questione della guerra rimangono alte, alimentate dai mezzi d’informazione istituzionali che sfruttano lo storico attaccamento del paese alla Russia e dal crescente risentimento contro l’occidente tra le fasce più povere della società. L’Ungheria e la Serbia, i cui leader autocratici, Viktor Orbán e Aleksandar Vučić, sono stati appena rieletti in modo schiacciante, presentano un rischio ancora maggiore per la sicurezza, perché finora hanno mantenuto legami piuttosto forti con la Russia, rifiutando di sostenere sanzioni severe contro Mosca. I serbobosniaci, a loro volta, hanno creato problemi in Bosnia, facendo riemergere il timore di un nuovo conflitto nazionalista nei territori dell’ex Jugoslavia. Questi atteggiamenti potrebbero essere semplicemente una presa di posizione politica, un tentativo di ottenere concessioni dall’Ue, ma questo non significa che non siano pericolosi.

Si parla spesso delle ambizioni imperiali della Russia, ma questa visione si basa, a mio avviso, su un equivoco fondamentale. La Russia di Putin non ha i tratti di un impero, come l’ex Unione Sovietica, ma è invece uno stato nazionalista revanscista, che cerca a sua volta di agitare gli spettri nazionalisti dell’Europa per dividerla e frantumarla. In questo senso la Bessarabia ucraina, con il suo carattere multietnico, può essere considerata un modello in scala ridotta dell’Europa, e forse uno dei suoi crogioli. Come mi ha detto Yaroslav Kičuk, “la cosa più importante in questo momento è preservare la nostra unità, e non permettere guerre o conflitti su basi nazionalistiche nella nostra regione. Anche se esistono unità [etnica] e tolleranza, la situazione potrebbe rivelarsi esplosiva”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul sito web del quadrimestrale statunitense The Point.

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