16 luglio 2020 10:29

Questo reportage è stato realizzato grazie al premio assegnato durante il workshop Impact journalism, organizzato da Terra! Onlus, Tutti nello stesso piatto e Non profit network. Hanno supervisionato Fabio Ciconte e Stefano Liberti.

Girando per le campagne intorno a Padova si notano subito: grandi cilindri verdi con cupole bianche. Sono tanti e sono ovunque, circondati da vaste coltivazioni di mais e grano. Sono i segnali più visibili delle centrali che in questi campi producono biogas, cioè gas ottenuti attraverso la degradazione di varie sostanze organiche. Questo processo di degradazione avviene proprio all’interno dei cilindri che costellano le campagne intorno al capoluogo di provincia veneto. In assenza di ossigeno e a temperatura controllata, un gran numero di batteri degrada le sostanze e dà vita al biogas e al digestato, un fertilizzante liquido naturale. Il biogas viene poi trasformato in energia elettrica grazie a un generatore, mentre il digestato è usato come concime nei campi vicini. Costruiti una decina d’anni fa per smaltire i rifiuti degli allevamenti e sovvenzionati in modo sostanzioso con fondi pubblici, molti di questi impianti hanno provocato un vero e proprio stravolgimento agricolo in diverse aree dell’Italia del nord.

“Vendo mais trinciato a due impianti da un megawatt”, spiega un fornitore che preferisce rimanere anonimo. Cinquant’anni, un amore incondizionato per la sua terra, spiega che “parliamo di circa cinquecento tonnellate di mais al giorno”. Per farlo ha bisogno ogni mese di 53 ettari di terreno. Per avere un’idea, si tratta di un’area pari a 74 campi da calcio. “È un business impressionante, che divora terreno agricolo e smaltisce pochissimo letame zootecnico proveniente dagli allevamenti, perché ormai le ‘diete’ delle centrali di biogas sono tutte a base di prodotti vegetali”. Si riferisce all’idea originaria che stava alla base dei finanziamenti statali stanziati nel 2008: dare vita a un circuito virtuoso agricolo capace di smaltire il liquame degli allevamenti intensivi all’interno delle centrali. Non è andata così.

Adesso come allora, gli imprenditori del biogas lavorano principalmente con dei terzisti. “Ci indicano quali sono i campi da lavorare e noi procuriamo loro il prodotto necessario alla loro azienda”, spiega il fornitore. I proprietari dei campi di solito non sono contadini, ma imprenditori che possiedono grandi estensioni di terreni. Vendono mais alle centrali perché gli conviene molto di più, tanto che anche gli agricoltori più piccoli, quando l’annata è incerta, cercano di rivolgersi agli imprenditori del biogas. Il gioco di ruoli funziona e conviene. Ce lo spiega un giovane agricoltore trevigiano che preferisce rimanere anonimo: “Da circa cinque anni lavoro solo per portare mais raccolto pochi mesi prima della maturazione agli impianti di biogas nelle vicinanze. I miei 25 ettari di terreno sono interamente dedicati a questo. E dirò la verità: ormai gira tutto intorno a questi biodigestori. Solo così noi contadini sopravviviamo”.

Poche risposte
In Veneto ci sono 256 impianti di biogas con una potenza totale di 178,815 megawatt elettrici (la sigla è Mwe, l’unità di misura per la quantità di energia erogata). La Lombardia ha fatto da apripista nel 2009. Oggi lì ci sono 554 impianti, che producono 381,203 Mwe. Seguono l’Emilia-Romagna con 209 impianti e il Piemonte con 189. In queste regioni è nata una nuova compagine agroindustriale che negli anni è stata capace di intrecciare, con alti e bassi, tre universi paralleli: allevamenti intensivi, agricoltura ed energie rinnovabili.

I numeri sono notevoli, anche se difficili da ottenere. In Veneto, secondo l’agenzia regionale Veneto Agricoltura, il 61,6 per cento degli impianti è interamente alimentato con mais, grano, sorgo e triticale (un cereale ibrido), mentre solo il 37 per cento con il letame.

Nel resto del paese è difficile quantificare quali siano le sostanze che i biodigestori consumano quotidianamente. Quali sono quelle più utilizzate? Quanto liquame d’allevamento smaltiscono? La risposta dell’ufficio comunicazione del Consorzio italiano per il biogas (Cib) – la prima associazione volontaria che riunisce aziende agricole produttrici di biogas in Italia – è lapidaria: “Stiamo facendo delle analisi ed elaborando i dati in questo periodo. Quindi questi numeri non sono attualmente disponibili”.

Un passo indietro
Per collegare i puntini che rendono unica la filiera dell’energia prodotta con il biogas, bisogna fare un passo indietro. Nel 2008, l’allora governo guidato da Silvio Berlusconi cercò di risolvere il problema dello smaltimento dei liquami zootecnici concedendo incentivi enormi agli impianti di biogas agricolo: 28 centesimi a kilowattora, cioè quattro volte il valore commerciale dell’energia elettrica.

Un impianto di biogas che produce un megawattora incassa 280 euro ogni ora, quasi settemila euro in sole 24 ore di fermentazione. Nel 2008, costruire un impianto di biogas costava circa 1,6 milioni di euro. Con gli incentivi si poteva rientrare del proprio investimento nel giro di soli due anni.

Il decreto del 2008, votato e introdotto in Italia sette giorni prima di Natale, prevedeva 28 centesimi a kilowattora “per 15 anni”. Nel 2013 è stato messo un freno a questa elargizione di soldi senza precedenti, riducendo gli incentivi fino al 50 per cento, in base al tipo di impianto e alla sua capacità di produzione energetica.

Qualche contadino ricorda che nel 2008 si vedevano persone girare in Porsche per le campagne

L’obiettivo del decreto era di aiutare gli allevatori che smaltivano i letami prodotti durante l’allevamento degli animali. Ma gli imprenditori usarano il biogas come una macchina per fare soldi e respirare durante la crisi economica cominciata nel 2008. Tutti quelli che ci lavoravano capirono subito che il mais raccolto prima della maturazione o le granaglie convenivano rispetto al letame: l’amido fermenta più velocemente. E regioni e amministrazioni si adeguarono, approvando questo tipo di progetti. Come racconta il fornitore che preferisce rimanere anonimo, “a volte ho visto gettare direttamente farine all’interno dei digestori per aumentare la fermentazione”. In tanti impianti in Lombardia e in Emilia-Romagna finivano per lo più mais, grano e sorgo.

Qualche contadino ricorda che al tempo si vedevano per le campagne della pianura padana persone girare in Porsche, scendere in mezzo al nulla con la valigetta in mano, guardarsi intorno e dire: “Qui si dovrà fare l’impianto”.

Dopo la bolla
Dopo la grande bolla del 2009-2012 si è cercato di frenare le speculazioni e risollevare le piccole realtà agricole che effettivamente usavano – e usano ancora – piccoli impianti di biogas per dare vita a circuiti virtuosi di agroindustria autosufficiente e circolare.

Se osserviamo la legge di bilancio 2019, gli incentivi sono diretti principalmente a chi produce solo 300 chilowattora e che dimostrano una dieta composta per l’80 per cento da liquame zootecnico e per il restante 20 da colture prodotte durante il secondo raccolto. Meglio ancora se l’energia è riutilizzata per i processi aziendali e non venduta. Si cerca di aiutare così chi ha un allevamento con massimo cento capi e decide di costruirsi il suo piccolo digestore per lo smaltimento del liquame.

Tuttavia, la maggior parte degli impianti produce circa 999 chilowattora: in Veneto a farlo sono più del 75 per cento. Questo perché le sovvenzioni statali del decreto del 2008 avevano fortemente incentivato le centrali che arrivavano a produrre 1 megawattora di energia.

Una sfida
Eppure il biogas è ancora una sfida valida e attuale. Ne è convinto David Bolzonella, professore ordinario di impianti chimici all’università di Verona e ricercatore nel campo della digestione anaerobica del biogas, parla di “una sfida estremamente attuale”. Secondo i suoi studi, molti dei quali condotti con alcune agenzie dell’Unione europea, “le potenzialità che il biogas ha dimostrato di avere sono fenomenali per aiutare il settore agricolo padano e le fonti rinnovabili, oltre che l’intero settore della bioeconomia in generale”.

Bolzonella spiega che “dopo la grande bolla si sono aperte due strade: una fatta di speculazione e l’altra d’innovazione, che in Italia ha raggiunto altissimi livelli di eccellenza. Penso a tutta una serie di realtà agricole locali che hanno deciso di formare dei consorzi per dare vita a esperienze che potrebbero diventare degli esempi da seguire per rendere il mondo agricolo più sostenibile”.

Un esempio è la cooperativa La torre in provincia di Verona, che conta tredici allevatori, settemila capi di bestiame e un fatturato di circa undici milioni di euro all’anno. Con i suoi due impianti di biogas da un megawattora riesce a smaltire la quasi totalità del letame prodotto. Quello che resta, assieme al refluo che viene fuori dagli impianti, lo usa per i suoi mille ettari di terreno.

Ma ci sono anche molti altri allevatori che attraverso gli impianti di biogas riescono a smaltire per intero il letame delle loro stalle, produrre elettricità per le loro attività e risparmiare ogni anno migliaia di euro di fertilizzante. Il tutto accade senza togliere niente alla produzione agricola per l’alimentazione animale e nemmeno ai prodotti destinati al consumo umano.

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