03 agosto 2020 09:34

La strada che porta ai sette laghi – compreso il famoso Umbrella pond, dove si formano delle bolle di fango a forma circolare – passa da Hta Nee La Leh, nel piccolo stato del Kayah, in Birmania. Il villaggio si può solo attraversare: i capi hanno deciso che, a parte gli abitanti, nessuno può fermarsi.

Il fatto che il Kayah sia una delle poche aree al mondo dove il nuovo coronavirus non ha creato un’emergenza sanitaria non li ha convinti ad agire diversamente. Non hanno cambiato idea neanche quando nello stato le misure per contenere il virus sono state allentate e il ministro del turismo ha chiesto di aprirsi ai viaggiatori, per lo più locali, nella speranza di far ripartire l’economia dell’area.

In Birmania dall’inizio della pandemia sono morte sei persone a causa del covid-19. Al 28 luglio i casi totali erano 351, tra cui 52 positivi, in gran parte rientrati dall’estero. Nel Kayah finora non si sono registrati contagi.

Un’isola
La capitale Loikaw è una città pulita e con pagode dorate arrampicate su montagnole dall’aspetto carsico. Grandi e piccoli budda sono incuneati in decine di grotte, anche in pieno centro, nonostante la città e lo stato formino un’isola nel mare buddista della Birmania. I cattolici sono novantamila, per questo il Kayah è considerato la “roccaforte” del cattolicesimo nel paese. Tanto vale fare una visita alla cattedrale, dall’aspetto mastodontico e appena costruita davanti alla vecchia chiesa eretta dai padri missionari agli inizi del novecento. Oggi tutti i sacerdoti sono birmani, compreso il vescovo, Stephen Tjephe.

Alla domanda su come l’area abbia affrontato la pandemia, Tjephe fa un largo sorriso: “Mangiamo molto piccante, sopravviviamo per questo!”. Poi torna serio: “In realtà, è vero che qui non si fanno molti test, ma le misure di precauzione sono state osservate con attenzione e rigore. La cattedrale, come le altre chiese e gli altri luoghi religiosi, è ancora chiusa, la messa viene trasmessa su Facebook”. Poi aggiunge: “I test sono fatti a chi rientra dall’estero (dalla Thailandia, per esempio, con cui il Kayah confina, ndr). Ci sono centri dove rimanere in quarantena e per più di due mesi la capitale è stata in lockdown. Anche nei villaggi le regole si rispettano, forse però con meno attenzione”.

A Panpet – dove vivono le tristemente famose “donne giraffa”, chiamate così per gli anelli a spirale che schiacciano le spalle e allungano il collo – di mascherine non se ne vedono. La cittadina è piena di negozietti di artigianato locale o made in Thailandia. Secondo Philip Phookae, una guida del posto, l’esplosione turistica del Kayah risale al 2012. Nel 2019 ci sono stati diecimila visitatori stranieri e quarantamila birmani. “Ma ora le cose si mettono male e ci aspettiamo un crollo”.

Nel resto del paese
Il governo birmano tiene alta la guardia. Dal 30 marzo ha vietato l’atterraggio di voli commerciali e bloccato le vie di accesso da e per la Cina, dove transitano tonnellate di merci. A parte il turismo – la stagione va da ottobre a marzo, e nel 2019 ha registrato quattro milioni di ingressi in tutto il paese – i dati sui visti d’affari spiegano bene le misure restrittive. Prima della pandemia ne venivano concessi circa 25mila al mese. A maggio 2020 sono stati 102, a giugno 278. La riapertura dell’aeroporto internazionale è rimandata di mese in mese e gli spostamenti interni – permessi da giugno – prevedono che si comprino due posti a sedere per poter viaggiare.

A inizio luglio il vicepresidente Henry Van Thio ha suggerito che il governo potrebbe decidere di consentire voli internazionali solo da ottobre 2020, magari con eccezioni per diplomatici, personale delle Nazioni Unite e speciali permessi di lavoro. La domanda è: la Birmania ha saputo e sa governare bene il virus (assai meglio che in Europa o altrove nel mondo, come sembrerebbe) o nasconde qualcosa?

Loikaw​, stato di Kayah, Birmania, 2018. (Mario Weigt, Anzenberger/Cont​rasto)

Quando è scattato il lockdown, a Bagan – sito archeologico tutelato dall’Unesco nel cuore della Birmania – è stato messo in pratica in modo del tutto particolare. Da un giorno all’altro sono apparsi check point all’ingresso di ogni singolo quartiere di Nyaung U (una delle tre cittadine da cui si accede al sito). Gestiti dalla comunità locale, con barriere e lavandini mobili, obbligavano chiunque a fermarsi, mostrare la mascherina e lavarsi le mani come la leader Aung San Suu Kyi aveva mostrato in tv. I ristoranti, i negozi e i bar erano stati chiusi, mentre rimanevano aperti solo le farmacie e qualche negozio di generi alimentari. In giro non c’erano poliziotti.

A Yangon, epicentro dei pochi casi di contagio, la mascherina si porta. Per ogni singolo caso le autorità diffondono informazioni sull’età, il sesso e la residenza. Chi vive nella stessa zona sa che potrebbe essere stato esposto al contagio, chi non lo è sa che si tratta di un luogo da evitare.

Controllo e informazione
Sostenere che il paese ha reagito così perché si basa su un modello autoritario, figlio di decenni di dittatura militare, sembra riduttivo. Certo, la filiera di controllo militare è ancora efficiente nella trasmissione degli ordini, ma sembra aver funzionato soprattutto l’autodisciplina o la coscienza comunitaria.

Una sorta di coscienza del bene comune – la salute – sostenuta dalle costanti litanie diffuse dai monasteri buddisti, la seconda grande potenza della Birmania dopo l’esercito. Televisione, giornali e manifesti hanno contribuito a tenere alta l’attenzione – così come le persone incaricate di diffondere informazioni e raccomandazioni con il megafono.

Perfino nel Rakhine – lo stato settentrionale dove c’è la guerra e dov’è impedito l’accesso a internet da più di un anno – l’informazione è arrivata con la radio o la tv. Ma le notizie girano anche sui telefoni, anche attraverso la app di messagi Viber.

Gli effetti sul turismo
La situazione non è tutta luci, ovviamente. Il lavoro ne ha risentito anche in un luogo come Bagan, dove si vive bene grazie al turismo. L’area con più di tremila stupa (monumenti buddhisti), pagode, monasteri e biblioteche – una delle grandi meraviglie del sudest asiatico, paragonabile ad Angkor Wat, in Cambogia, o all’intero insieme dei complessi indù-buddisti di Giava centrale – produce ricchezza soprattutto in alta stagione (ottobre-marzo), quando il cielo si anima di mongolfiere con cui fare un viaggio pagando 300-350 euro.

Gli alberghi sono centinaia e centinaia i ristoranti, per tutte le tasche. Si affittano moto elettriche e biciclette in un’atmosfera abbastanza unica. Mettere il lucchetto è considerato un’offesa in un luogo sacro, dove “nessuno ruba”.

Dopo marzo si lavora con il turismo locale, ma oggi di viaggiatori non se ne vedono proprio. Thingyan, la festa che a metà aprile segna l’inizio del nuovo anno e che attira migliaia di persone, è stata cancellata.

Crisi climatica
Tutto questo va inquadrato in un contesto già segnato da altri problemi: fuori dal cerchio magico dei templi, Bagan è affacciata sulla dry zone, l’area più arida della Birmania, considerata una delle zone più esposte agli effetti della desertificazione.

Myo Min Aung, un agronomo esperto di problemi idrici, spiega che qui le uniche colture che resistono sono arachidi, fagioli e sesamo di qualità pregiata. “Ma quest’anno non sta andando per niente bene. Piove sempre di meno e così si perde il primo raccolto”, dice.

Lo conferma U Aung Toe, il capo del villaggio di Twin Phyu Yoe, nella regione centrale di Magway, a trenta chilometri da Bagan, in piena dry zone. Racconta che “negli ultimi cinque-dieci anni le cose sono peggiorate. Prima le piogge erano abbastanza stabili. Cominciavano ad aprile. Un anno pioveva per bene, un altro anno meno. Ma ora, ad aprile non piove più”. La guida Philip Phookae conferma che anche nel Kayah la situazione è peggiorata: “Troppo poca acqua per le nostre risaie”.

Confini ed elezioni
Per supplire agli effetti del lockdown il governo ha messo in pratica misure straordinarie: riduzione della bolletta elettrica, aiuti alle fabbriche e saltuarie distribuzioni di cibo. Da giugno le restrizioni sono state allentate, ma al governo restano due preoccupazioni: una è dichiarata, l’altra è appena sussurrata.

La prima riguarda chi torna dall’estero, per lo più da Thailandia, Corea del Sud, Cina, Malaysia e India. Parliamo di tre-quattro milioni di birmani. Licenziati e senza prospettive, vengono rimpatriati e, all’arrivo, sottoposti ai test. Molti sono risultati positivi. L’allarme cresce nelle aree di frontiera. Con Cina e India i confini sono instabili e porosi, e il controllo della situazione è complicato dagli eserciti autonomisti locali, che hanno aderito al processo di pace promosso dal governo solo in parte e che di fatto controllano il territorio. Infine, a ovest diversi rohingya – la minoranza musulmana che nel 2017 è stata espulsa in Bangladesh dallo stato del Rakhine – cercano di rientrare. Alcuni fra loro, fermati, sono risultati positivi.

La seconda preoccupazione riguarda le elezioni politiche di novembre: le prime dopo la vittoria della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi nel 2015. “Nessuno vuole arrivare all’appuntamento mentre sono in corso uno o più focolai”, dice un diplomatico europeo.

Il risultato – è opinione corrente – sembra sicuro per la Lnd, ma il timore di perdere anche un solo voto è forte: “Chi vorrebbe essere accusato di non aver saputo gestire la pandemia, o averla fatta esplodere?”.

La situazione, comunque, per ora è sotto controllo. Come in Laos, Cambogia e Vietnam, i paesi con meno casi in Asia, nonostante siano i più vicini via terra alla città di Wuhan, in Cina: insieme contano una popolazione di 170 milioni di persone, poco più di mille casi e solo sei morti in Birmania.

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