15 marzo 2019 09:52

“Se l’uso dei combustibili fossili minaccia la nostra esistenza, come è possibile che continuiamo a usarli? Perché non ci sono dei limiti? Perché non è illegale farlo?”. Così ha scritto in una lettera al Guardian Greta Thunberg, la ragazza svedese ispiratrice delle migliaia di giovani che parteciperanno al Climate strike, la marcia globale per il clima prevista per il 15 marzo contemporaneamente in 105 paesi e 1.659 città, di cui 178 in Italia.

Il 13 agosto 2018, una settimana prima che Thunberg cominciasse la sua protesta solitaria per il clima davanti al parlamento svedese, il tribunale della corte di giustizia dell’Unione europea ha accettato il ricorso presentato dalle dieci famiglie riunite nella causa collettiva People’s climate case contro il parlamento europeo e il consiglio dell’Unione europea per le politiche climatiche dell’Ue, considerate insufficienti a proteggere la salute dei cittadini.

Attraverso direttive e regolamenti l’Unione europea ha fissato come obiettivo per il 2030 la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 40 per cento rispetto ai valori del 1990. Ma in questo modo, accusa il People’s climate case, il parlamento e il consiglio europei autorizzano emissioni significativamente superiori all’equa condivisione dello sforzo (fair effort sharing) da rispettare nell’Ue per raggiungere gli obiettivi fissati con l’accordo di Parigi per contenere la temperatura media terrestre entro 1,5 gradi o comunque ben al di sotto dei 2 gradi.

L’azione legale è stata intrapresa da famiglie che provengono da Portogallo, Germania, Francia, Italia, Romania, Kenya, Fiji e dall’associazione giovanile svedese del popolo sami, Sáminuorra, ed è supportata dal Climate action network, coalizione di più di 1.300 ong impegnate nel contrasto al cambiamento climatico.

L’esperienza della famiglia Elter
La famiglia italiana è quella di Giorgio Elter, agricoltore a 1.800 metri di altitudine nel comune di Cogne, in Valle d’Aosta, e padre di quattro figlie che con lui e con la madre hanno deciso di fare causa all’Unione europea. Elter coltiva ortaggi, piccoli frutti e piante aromatiche che poi trasforma direttamente. La sua attività è particolare, perché a quelle altitudini le principali attività agricole sono l’allevamento di bovini e la produzione di formaggio.

“Io non coltivo niente di particolare, non coltivo certo i pomodori. Coltivo le specie tradizionali tipiche di Cogne e della zona. Ma oggi a causa dell’alterazione dei cicli stagionali queste piante hanno difficoltà a maturare e ne risente anche la produzione”, racconta Elter. “Due anni fa c’è stata pochissima neve in inverno, e un caldo tardoinvernale in febbraio e marzo che è fuori della norma per queste altitudini”, continua. “Questo ha fatto sì che la vegetazione cominciasse a riprendersi in anticipo producendo gemme e fiori. Poi ad aprile sono arrivate le gelate, che sono normalissime per quel periodo, ma visto che le piante avevano già ripreso l’attività vegetativa il freddo ha bruciato le gemme e i fiori e non ho raccolto né fragole né lamponi”.

Penso che la mia generazione sia stata educata a non alzare mai la voce, osserva Maria Elter, che ha quasi 18 anni

Nella zona climatica delle Alpi ci dovrebbe essere la neve fino ad aprile e tutta la vegetazione dovrebbe essere in riposo vegetativo fino al suo scioglimento in primavera. Le nevicate sono importanti perché proteggono dal gelo le piante perenni, come le fragole e i lamponi, e i terreni dove è stato seminato. I piccoli frutti, che possono essere venduti freschi o trasformati in confettura, sono dei prodotti importanti da un punto di vista economico. Nel 2017, a causa della mancata raccolta di fragole e lamponi, Elter ha subìto una perdita di circa il 20 per cento del fatturato annuo.

Quest’anno somiglia paurosamente a quello di due anni fa. “Ai primi di marzo a 1.800 metri dovrebbe esserci ancora un metro di neve e la temperatura dovrebbe essere sotto zero. Invece abbiamo già toccato i 20 gradi e sono 15 giorni che ho cominciato a lavorare i campi”, racconta l’agricoltore spiegando la gravità dell’impatto del cambiamento climatico per le coltivazioni e per il suo lavoro. “L’agricoltura deve adeguarsi, deve cambiare tutto. Non potremo più coltivare le specie tradizionali tipiche di Cogne”.

La coltivazione della fragola richiede parecchio tempo, e non ne vale la pena se un anno sì e un anno no le colture non arrivano a produzione. “Io coltivo tante specie, così da non rimanere in ginocchio quando un anno va male. Le fragole sono una coltivazione importante, ma prima di prendere la decisione di cambiare tutto, uno ci pensa”, dice Elter.

Maria Elter, la figlia più giovane di Giorgio Elter, compie 18 anni il mese prossimo e parteciperà alla marcia per il clima ad Aosta, a 45 minuti in pullman da Cogne. Maria ha sentito parlare per la prima volta del cambiamento climatico nei primi anni delle superiori. “Quand’ero bambina non mi preoccupavo dei problemi ambientali. Ma dal paese in cui vivo si vedono i ghiacciai che si sciolgono, ogni anno, sempre di più, e quando mio padre ci ha detto della causa legale contro il parlamento europeo e il consiglio dell’Unione europea sono stata entusiasta di poter contribuire a un’azione che potrebbe aiutare a risolvere un problema che coinvolge tutto il mondo”.

Anche alcuni amici di Maria, “quelli che capiscono il problema”, sono stati entusiasti quando hanno saputo del People’s climate case, mentre altri sono rimasti indifferenti. “Penso che la mia generazione sia stata educata a non alzare mai la voce e ad accontentarsi di ciò che il mondo offre. Molte persone non sono interessate a fare qualcosa contro i cambiamenti climatici perché non si rendono conto della gravità del problema”, dice Maria che studia al liceo di scienze umane Regina Maria Adelaide di Aosta.

Secondo lei una parte dell’indifferenza è dovuta al fatto che a scuola se ne parli poco e male, e che nel dibattito pubblico non se ne parli abbastanza. “Io penso che la manifestazione del 15 marzo sarà molto bella, molto unita”, dice Maria, “è partita da una cosa piccola e fa vedere che dal gesto di una persona si può arrivare a qualcosa di grande”.

Di chi è la responsabilità
I campi di Elter sono esposti a sud e da lì si vede il versante nord del massiccio del Gran Paradiso, con il ghiacciaio del Gran Cru e il ghiacciaio della Tribolazione. “È evidente per chiunque viva o frequenti Cogne che si stanno ritirando in maniera folle”, osserva Elter. Il cambiamento climatico è più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti, e il rapporto Ispra 2018 sulle variazioni della temperatura in Italia mostra che un aumento medio di temperatura di 1 grado in bassa quota corrisponde a un aumento doppio sulle Alpi. I ghiacciai delle Alpi sono le riserve di acqua dolce per le pianure a valle e per il bacino idrografico del Po e gli effetti del loro ritiro si stanno già facendo sentire a chilometri di distanza.

A Cogne, oltre al modello di agricoltura dovrà cambiare anche quello del turismo. D’inverno si pratica lo sci di fondo, ma se non nevica le piste non aprono. Si potrebbe ricorrere alla neve artificiale, ma non se la temperatura è troppo alta. Cogne è famosa per le cascate di ghiaccio che attirano alpinisti da tutto il mondo. Ma anche quest’attività comincia a risentire del cambiamento climatico, spiega Elter: “L’alta temperatura invernale impedisce al ghiaccio di formarsi sulle cascate e le riserve idriche che le alimentano si stanno esaurendo a causa della diminuzione delle nevicate invernali, che normalmente servono a incentivare il recupero delle risorse idriche, e delle siccità estive che le prosciugano”. Forse, tra 20 anni, l’arrampicata su ghiaccio non sarà più praticata a Cogne.

L’aumento della temperatura media ha effetti anche sul permafrost, lo strato di suolo perennemente ghiacciato. “Fino a trent’anni fa era difficile trovare temperature superiori allo zero sopra ai tremila metri. Adesso lo zero termico arriva in cima al Monte Bianco, oltre i cinquemila metri”, denuncia Elter. E anche alla fine di febbraio, a 3.500 metri la temperatura era sopra lo zero.

Durante una manifestazione per il clima a Milano, 1 febbraio 2019. (Emanuele Cremaschi, Getty Images)

Laureato in scienze forestali, prima di cominciare l’attività di agricoltore nel 2007 Elter era libero professionista e ha lavorato per anni su valanghe e dissesto idrogeologico, diventati più frequenti e di maggiore intensità. Elter era già a conoscenza degli impatti e dei rischi legati al cambiamento climatico quando l’ong Save the planet, che paga le spese legali del People’s climate case, l’ha invitato a partecipare al ricorso contro le istituzioni dell’Unione europea. Dice di avere subito accettato per la “responsabilità che uno sente nei confronti delle nuove generazioni. Abbiamo condotto uno stile di vita che ha creato situazioni di eccessivo sfruttamento ambientale senza preoccuparcene. Non siamo stati capaci di uno sviluppo sostenibile, non siamo stati di capaci di mantenere intatto quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori e dai nostri nonni”.

L’insufficienza dell’Europa
Il People’s climate case basa la sua accusa sulle analisi delle emissioni di gas a effetto serra condotte dall’ong Climate analytics, che fornisce informazioni scientifiche rilevanti per lo sviluppo di politiche in difesa del clima.

Climate Analytics, il NewClimate Institute, un’ong che dal 2011 si occupa di politiche climatiche internazionali, e la società di consulenza energetica Ecofys, hanno creato il progetto Climate action tracker che si occupa di valutare le promesse di riduzione delle emissioni dei vari stati e le azioni effettivamente in atto. Le politiche climatiche degli stati sono valutate da “modello da seguire” a “criticamente insufficiente”. L’Europa è classificata come “insufficiente”.

Hanna Fekete è una delle fondatrici del NewClimate Institute e osserva: “Entro il 2030 l’Europa dovrebbe ridurre le sue emissioni di CO2 di almeno il 60 per cento rispetto ai valori del 1990. Questo è lo sforzo minimo per un’equa condivisione dello sforzo”. L’approccio di un’equa condivisione dello sforzo (fair effort sharing) si basa su vari criteri “tra cui le responsabilità storiche e le capacità dei singoli stati; l’idea che i paesi con un prodotto interno lordo maggiore debbano fare degli sforzi maggiori; o ancora che nel 2050 ci debba essere una convergenza che porta a emissioni pro capite uguali in tutti i paesi”.

Un rapporto pubblicato da Climate action tracker nel dicembre 2018 mostra che dall’entrata in vigore dall’accordo di Parigi del 2015 le politiche realmente applicate nei vari paesi mostrano pochi progressi, e se anche tutti i governi mantenessero gli impegni presi, questi non sarebbero sufficienti e la temperatura media del pianeta nel 2100 supererebbe di tre gradi quella dell’epoca preindustriale. Il rapporto Scaling up climate action in the European union mostra, però, che l’Unione europea potrebbe tagliare le sue emissioni di più del 50 per cento entro il 2030 rispetto al 1990 agendo solo su tre settori che rappresentano oggi circa il 60 per cento delle emissioni di gas a effetto serra: la produzione di energia, le abitazioni residenziali e il trasporto passeggeri su gomma.

Le cause dal basso
Per quanto riguarda invece i processi e gli esposti in tribunale relativi al riscaldamento climatico, secondo una recente analisi dell’istituto Grantham di ricerca sul cambiamento climatico e l’ambiente su oltre mille cause legali che riguardano il clima, le imprese e le multinazionali sono quelle più presenti nelle aule giudiziarie, dove si oppongono alle decisioni delle pubbliche amministrazioni in materia di clima, come il rifiuto di rilasciare nuove licenze per la costruzione di centrali a carbone o l’introduzione di quote per l’emissione di gas a effetto serra.

Gli autori dell’analisi notano tuttavia un aumento negli ultimi anni delle cause legali intentate dal basso, da cittadini e ong che ricorrono alla giustizia contro privati e governi quando ritengono che il riscaldamento climatico determini una violazione dei diritti fondamentali delle persone. Secondo i ricercatori queste iniziative potrebbero avere un “impatto significativo” perché stanno allargando il dibattito sulle responsabilità del fenomeno.

Questo tipo di processi può essere replicato in Italia, perché il cambiamento climatico incide sul diritto alla salute

Nel 2015, 886 cittadini olandesi rappresentati dalla fondazione Urgenda hanno vinto una causa per “violazione dei diritti umani” contro il loro governo, e il tribunale distrettuale dell’Aja ha ordinato al governo dei Paesi Bassi di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 25 per cento al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2020 in conformità con l’obbligo specifico di “proteggere i suoi cittadini”. Il governo olandese, il cui obiettivo di riduzione era attorno al 17 per cento, ha fatto ricorso contro la decisione in corte di appello. Pur avendolo perso, invece di rispettare la sentenza ha deciso di presentare un nuovo appello.

Nell’ottobre 2016, una coalizione di giovani attivisti, rappresentanti di popolazioni indigene e Greenpeace ha presentato ricorso contro la decisione del governo norvegese di aprire il mare di Barents alle esplorazioni petrolifere. Il primo ministro è stato accusato di mancato rispetto dell’articolo 112 della costituzione norvegese che recita: “Ogni persona ha il diritto a un ambiente favorevole alla tutela della salute (…). Le risorse naturali devono essere gestite sulla base di valutazioni lungimiranti e di portata globale che permettano di salvaguardare tali diritti anche per le generazioni future”.

Il 14 marzo 2019, l’associazione francese Notre affaire à tous, insieme a Oxfam France, a Greenpeace e alla fondazione Nicolas Hulot, ha depositato presso il tribunale amministrativo di Parigi un ricorso chiamato l’Affaire du siècle contro il governo di Emmanuel Macron. Sostenuto da più di due milioni di cittadini che hanno firmato l’appello, il ricorso chiede allo stato francese di prendere misure per mitigare il cambiamento climatico e allo stesso tempo garantire la giustizia sociale.

A prescindere dall’esito, quella del People’s climate sarà una causa pilota che potrebbe condurre all’adozione di politiche più efficaci

Secondo Michele Carducci, ordinario di diritto costituzionale e comparato e di diritto climatico presso l’Università del Salento, questo tipo di processi potrebbe essere replicato anche in Italia. Anche se la parola “clima” non compare nella costituzione italiana, osserva Carducci, “i cambiamenti climatici sono riconducibili a sfere di garanzia e riconoscimento già inclusi nella nostra costituzione. Il clima è un fatto naturale che prescinde dalle azioni umane, mentre i cambiamenti climatici non sono solo un fatto naturale. La comunità scientifica ha accertato che c’è una forte determinazione causale delle azioni umane, e in particolare di due azioni: l’uso dei combustibili fossili e l’inadeguatezza dei modi per limitare i danni”.

Quindi, conclude, Carducci, “in quanto fenomeno sociale il cambiamento climatico può essere perfettamente riconducibile al diritto fondamentale alla salute individuale e collettiva, sancito nell’articolo 32 della costituzione, e all’articolo 41 secondo cui l’attività economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”.

Gli osservatori sanno che le battaglie nel campo della difesa ambientale sono basate su un rapporto di forze, e non si può prevedere quale sarà l’esito del People’s climate case. “A prescindere dall’esito, sarà una causa pilota. Grazie all’impatto politico e nei mezzi d’informazione e al contributo delle conoscenze scientifiche potrebbe condurre all’adozione di politiche più efficaci”, commenta Chiara Maiorano, avvocata specializzata in diritto dell’ambiente e protezione internazionale.

Gli studenti del gruppo #FridaysForFuture Firenze in piazza Ciompi, 13 marzo 2019. (Emma Romoli)

Maiorano nel 2018 ha ottenuto la protezione umanitaria per problemi legati al cambiamento climatico nelle regioni di provenienza per un cittadino del Bangladesh, uno dei territori più vulnerabili all’alterazione delle condizioni ambientali determinate dall’aumento della temperatura terrestre.

L’esperienza di Firenze
Emma Romoli, 19 anni la settimana prossima e studente all’ultimo anno al liceo classico Michelangelo, è una delle organizzatrici della marcia a Firenze: “Ho sentito parlare per la prima volta di cambiamento climatico alle medie, in una lezione di geografia non molto approfondita e non ricordo un granché. Invece, in seconda liceo, le Mamme No Inceneritore (un’associazione che si batte contro i progetti di costruzione del nuovo inceneritore e di estensione dell’aeroporto di Firenze), sono venute a un’assemblea a scuola e ci hanno parlato delle conseguenze che inceneritori e traffico aereo hanno sulla salute e sul clima. Ricordo che mi ha colpito moltissimo. Poi c’è stata un’inchiesta di Report che mi ha aperto gli occhi: mostrava un documentario di Rai Storia sull’inquinamento a Londra negli anni ottanta. E due giorni fa ho letto sul giornale di quante persone muoiono per l’inquinamento atmosferico”, continua Romoli che dopo il liceo pensa di iscriversi alla facoltà di filosofia. “Io non avrò un futuro: vado in bicicletta e mi prendo zaffate di aria inquinata. Sono molto arrabbiata per il progetto dell’estensione dell’aeroporto di Firenze e per la distruzione dell’ambiente”.

Tutti gli anni, Romoli e il collettivo Studenti uniti del Michelangelo organizzano cortei per la scuola a ottobre, manifestazioni dell’8 marzo e del 25 aprile, e quest’anno hanno occupato la scuola per protestare contro il comune per il degrado dell’edilizia scolastica. “Prima di conoscere la storia di Greta Thunberg e la nascita del movimento #FridaysForFuture non avevo mai pensato di organizzare una manifestazione per il clima. Per la mia generazione sembra impensabile riuscire a fare qualcosa contro i problemi ambientali”.

Gli studenti del gruppo #FridaysForFuture Firenze si sono imposti di rimanere svincolati dai partiti “per evitare che i politici italiani si possano identificare con noi a sproposito”, spiega Romoli. Secondo loro questo permetterà anche a persone che non fanno politica di partecipare alla manifestazione e di “rendersi conto delle inadempienze di ogni partito politico nella lotta al cambiamento climatico”.

“Io spero che in piazza alla manifestazione per il clima ci sia tanta gente arrabbiata contro le politiche che non seguono più il bene dei cittadini ma solo gli interessi delle multinazionali. Credo fermamente che ci sarà un risveglio della mia generazione. Lo so che la manifestazione del 15 marzo non avrà delle conseguenze immediate e lo so che la protesta andrà a scemare”, conclude Romoli. “Ma dopo ci sarà la marcia del 23 marzo a Roma per il clima e contro le grandi opere inutili, e dopo ancora continueremo a riunirci in assemblea e a sensibilizzare le persone perché è un nostro diritto avere una vita ecosostenibile”.

Osserva Christophe Traini, professore di scienze politiche all’istituto di scienze politiche di Aix-en-Provence: “Le mobilitazioni sono importanti perché il diritto non evolve solo grazie ad argomenti giuridici, ai quali è sempre possibile opporre dei controargomenti. Come dimostrato chiaramente dai movimenti per i diritti civili negli Stati Uniti, i magistrati fanno evolvere la giurisprudenza appoggiandosi ai valori e alle scelte espresse dalla società, nell’insieme o per segmenti consistenti”.

In una lettera scritta alla fine di febbraio al Guardian, venti giovani del gruppo internazionale di coordinamento dello sciopero del 15 marzo chiedono ai governi di prendere misure efficaci e reclamano “la giustizia climatica per tutte le vittime passate, presenti e future del cambiamento climatico”.

La difesa dell’ambiente si basa su rapporti di forze. La marcia del 15 marzo riuscirà a far pendere la bilancia dalla parte della giustizia climatica?

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