23 maggio 2015 11:23
Il fisico Carlo Rovelli all’università di Luminy a Marsiglia, in Francia, il 16 aprile 2015. (Ian Hanning, Réa/Contrasto)

Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi) di Carlo Rovelli è il più sorprendente best seller degli ultimi mesi. Un saggio semplice e appassionante, dedicato alle più complesse teorie della fisica contemporanea, è stato capace a tratti di superare le vendite dei romanzi più popolari italiani e stranieri.

Non si tratta di un caso isolato, e di fronte al consolidamento di questo canone divulgativo si ripropone un interrogativo che interessa tutta la letteratura scientifica moderna: è possibile spiegare i concetti fondamentali della fisica teorica senza entrare nei suoi dettagli matematici e senza al tempo stesso snaturarne radicalmente il contenuto? Si potrebbe rispondere tagliando corto: l’obiettivo non è spiegare, ma stimolare la curiosità per la scienza; se questi libri animano la curiosità di qualche lettore, più o meno giovane, forse hanno raggiunto il loro scopo principale.

Ma il proliferare di libri divulgativi che raccontano teorie bizzarre, sulle quali l’accordo tra gli scienziati è minimo, ci spinge a tornare alla domanda e a precisarla: al di là dei dettagli, questi libri comunicano un’immagine corretta della scienza?

Non si studia forse a scuola che la scienza moderna è nata dall’abbandono delle ipotesi speculative e immaginative, e che la si può definire scienza proprio perché essa ha imboccato – almeno a partire da Newton – la via del linguaggio matematico e del rigoroso metodo sperimentale?

Secondo Rovelli il tentativo di illustrare e discutere le teorie fondamentali della fisica contemporanea senza discutere esperimenti e formule (condotto più diffusamente in altri suoi libri, da Che cos’è la scienza? a La realtà non è come ci appare) ha delle buone motivazioni. In generale l’idea secondo cui la scienza procede in base al semplice accumulo di osservazioni è scorretta per varie ragioni: non solo trascura il ruolo delle idee nella formazione delle teorie fisiche, ma non permette di vedere come nei casi delle teorie più rivoluzionarie è stata proprio la distruzione di pregiudizi intuitivi, nascosti in quelli che si credevano “fatti”, a innescare il progresso scientifico.

Questo è accaduto a partire dall’intuizione di Anassimandro (VI secolo avanti Cristo) che la Terra possa essere sospesa nel vuoto senza cadere, fino ad arrivare alla tesi di Einstein secondo cui la simultaneità tra gli eventi non è assoluta ma relativa al sistema di riferimento dell’osservatore.

Per queste ragioni Rovelli si oppone a una visione della ricerca scientifica come “soluzione di problemi”, intendendo con questa concezione la tesi per cui il lavoro del fisico consisterebbe nel ricavare una teoria in base a date premesse sperimentali e matematiche. In un recente articolo che sintetizza le sue tesi Rovelli afferma:

Quando assegno una tesi a un mio studente, la maggior parte delle volte il problema della tesi non viene poi risolto. Non viene risolto perché la soluzione della questione, la maggior parte delle volte, non consiste nel risolvere la questione, ma nel metterla in discussione. Si tratta di realizzare che, nel modo in cui il problema era stato formulato, c’era qualche assunzione implicita e pregiudiziale che doveva essere abbandonata.

Rovelli pensa che la considerazione delle teorie del passato e delle loro idee fondamentali, che magari sono ancora in conflitto con il nostro modo di pensare, sia un momento essenziale della ricerca teorica in fisica. E si spinge fino a sostenere che lo stallo della fisica teorica contemporanea – che da decenni non trova una soluzione condivisa dei suoi problemi fondamentali – dipenderebbe proprio da una mancanza di questa dimensione storico-filosofica nella formazione e nell’attività di ricerca dei fisici teorici:

Ogni fisico di oggi è prontissimo a dire: ‘Bene, tutta la nostra passata conoscenza sul mondo è sbagliata: proviamo dunque con qualche nuova idea presa a caso’. Io sospetto che questo atteggiamento abbia una responsabilità non trascurabile per l’insuccesso che da molto tempo caratterizza la nostra fisica teorica. Si può capire qualcosa di nuovo sul mondo o quando si raccolgono nuovi dati, oppure ripensando profondamente a quello che abbiamo già appreso sul mondo. Ma pensare significa anche accettare ciò che si è imparato, mettendo in discussione ciò che pensiamo, con la consapevolezza che in ciò che pensiamo potrebbe esserci qualcosa da modificare o da cambiare.

Questa concezione della fisica può legittimare la scrittura di libri capaci di raccontare la fisica teorica, pur facendo a meno degli elementi matematici e sperimentali, per concentrarsi invece sull’elemento trascurato del pensiero. Si tratta di una concezione che trova supporto in molte indagini storiche e filosofiche del secolo scorso sulla formazione delle grandi teorie fisiche nella fisica moderna e contemporanea: ormai nessuno può negare che Newton, Einstein, Heisenberg e molti altri avevano una profonda conoscenza della cultura filosofico-scientifica del passato, e ne fecero uso per la loro attività teorica. Tuttavia, nell’ambito della comunità scientifica, si tratta di una posizione eccentrica se non osteggiata.

Quelli che la pensano all’opposto sono diversi illustri fisici teorici, secondo i quali la fisica avrebbe soppiantato la filosofia proprio grazie all’impiego del metodo matematico-sperimentale. Per esempio Stephen Hawking ha affermato che le domande fondamentali sulla natura dell’universo non si potrebbero risolvere senza i dati “duri” che sono attualmente ricavati dal grande acceleratore di particelle del Cern e dalla ricerca spaziale, e ha concluso:

La maggior parte di noi, solitamente, non si preoccupa di queste domande. Ma quasi tutti a volte ci chiediamo: ‘Perché siamo qui? Da dove veniamo?’. Tradizionalmente, queste sono domande tipiche della filosofia, ma la filosofia è morta. I filosofi non si sono tenuti al passo con gli sviluppi della scienza, in particolare della fisica […]. Gli scienziati sono diventati i portatori della torcia della scoperta nella nostra ricerca della conoscenza. [Nuove teorie] ci portano a una nuova e diversa immagine dell’universo e del nostro posto in esso.

Questo genere di affermazioni, con toni anche più aggressivi, è stato fatto da eminenti fisici della generazione successiva (per esempio qui e qui). Tutte queste opinioni identificano la filosofia con una disciplina obsoleta e puramente speculativa, che ha avuto la sola funzione di dar vita alla scienza tanto tempo fa.

È appena il caso di sottolineare che si tratta di affermazioni storicamente infondate, tuttavia queste concezioni sono molto radicate, e comportano il discredito della dimensione storico-filosofica della scienza che, come abbiamo visto, è invece difesa da Rovelli.

Anche nel recente libro del fisico e premio Nobel Steven Weinberg, dedicato a raccontare la “scoperta della scienza moderna”, tutto il passato è considerato alla luce delle teorie e metodologie contemporanee, che permettono di rilevarne gli errori e riformularne le intuizioni. Questo però cancella dalla storia il ruolo di idee, problemi e metodi non riconducibili strettamente alla metodologia matematico-sperimentale, che invece hanno avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo della scienza occidentale. Non a caso il libro ha immediatamente suscitato la reazione degli storici di professione.

L’innovazione ha bisogno di menti visionarie

Non bisogna trascurare che dietro a queste frizioni c’è anche la questione dei criteri di finanziamento alla ricerca. Nell’ottica di una concezione della fisica come disciplina del tutto autonoma e sempre più complessa da insegnare, la filosofia e la storia della scienza appaiono come fardelli improduttivi, di cui si nega ogni contributo alla scienza e alla tecnologia.

Qualche anno fa il filosofo della scienza Donald Gillies ha dedicato un libro al sistema britannico di valutazione della ricerca, mostrando che esso privilegia la formulazione di problemi solubili e scoraggia quindi progetti non avviati al successo immediato.

C’è da dire che in base a questi criteri, sottolinea Gillies, scienziati come Copernico e Frege sarebbero stati esclusi da ogni finanziamento, e non avrebbero potuto condurre a termine le loro ricerche. Non solo: Gillies mostra attraverso molti esempi e documenti che i sistemi di selezione dei finanziamenti mediante peer review finiscono con l’escludere i progetti di ricerca minoritari, che invece sono spesso la fonte dell’innovazione, dalla fisica alla medicina. Di fronte a questa situazione, secondo Gillies, sarebbe preferibile introdurre criteri di selezione casuali. Il caso analizzato da Gillies è facilmente estendibile a tutta la politica della ricerca scientifica europea, e oltre.

È interessante il caso del Foundational questions institute (Fqxi), la più ampia comunità di fisici interessati ai “fondamenti” della disciplina e aperti al dialogo con i filosofi. Questa comunità mira a sostenere la ricerca della “natura profonda della realtà”, in modo non convenzionale.

Tra i membri di Fqxi figurano ricercatori dalle inclinazioni molto speculative, ma anche moltissimi protagonisti importanti della ricerca fisico-teorica contemporanea. Ora, è significativo che Fqxi non abbia una sede istituzionale accademica e si autoproclami una comunità di “visionari”. È un caso tipico in cui il linguaggio dei critici è assimilato da un movimento che si autopercepisce come marginale: la ricerca sui fondamenti è percepita come “avanguardia” o “eresia” rispetto a un’ortodossia disciplinare – quelli dei dati duri.

Se si sospetta che questo manipolo di avventurieri intellettuali sia destinato all’inconcludenza si può ricordare che l’esigenza di tornare a una formazione scientifica più ricca, per favorire un atteggiamento più innovativo, era stata sollevata già da Albert Einstein. Rispondendo a un giovane docente che gli comunicava la sua intenzione di mettere “tutta la filosofia della scienza possibile” nel suo corso di fisica moderna, Einstein (1944) scriveva:

Sono pienamente d’accordo con te sul significato e sul valore educativo della metodologia, così come della storia e della filosofia della scienza. Oggi molta gente – perfino scienziati professionisti – mi sembra come chi ha visto migliaia di alberi ma non ha mai visto una foresta. Una conoscenza dello sfondo storico e filosofico dà quel genere di indipendenza dai pregiudizi della propria generazione, di cui la maggioranza degli scienziati sta soffrendo. Questa indipendenza creata dall’indagine [insight] filosofica – a mio parere – costituisce il tratto che distingue un mero artigiano o specialista dal vero ricercatore della verità.

Comunque la si pensi, bisogna riconoscere un fatto: a 70 anni di distanza, mentre si celebra il centenario della relatività generale, queste parole non hanno perso nulla della loro attualità. Fisici di orientamento diverso, in base a posizioni opposte rispetto al valore della memoria storica della loro disciplina, si contendono ancora il titolo di veri ricercatori della verità.

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