20 agosto 2019 16:02

La 72ª edizione del festival di Locarno si è chiusa con un fuoco d’artificio, sabato sera, al momento della cerimonia di premiazione in piazza Grande – seguita dalla proiezione di Tabi no owari sekai no hajimari (To the ends of the earth), nuovo film del maestro giapponese Kiyoshi Kurosawa. A vincere è stato infatti un capolavoro da dieci e lode, Vitalina Varela del maestro portoghese Pedro Costa.

La giuria del Concorso internazionale – composta dalla scrittrice e regista francese Catherine Breillat, una delle più interessanti cineaste di oggi; dalla tedesca Valeska Grisebach; dalla produttrice olandese Ilse Hughan; dall’attore Nahuel Pérez Biscayart e dal critico cinematografico del quotidiano La Repubblica Emiliano Morreale – ha sorpreso per coraggio e lungimiranza. Per il palmarès nel suo insieme, ma soprattutto per il Pardo d’oro assegnato al film di Costa.

Questo ritratto di una donna capoverdiana di mezza età e dalle umili origini, ma dalla grande bellezza e presenza, che arriva a Lisbona pochi giorni dopo la morte del marito – avendo atteso 25 anni la possibilità di fare questo viaggio – lo si può guardare all’infinito, talmente è ipnotico. Vitalina Varela segna il ritorno a Locarno di Pedro Costa dopo l’indimenticabile Cavallo denaro, presentato qui nel 2014, e con il quale forma un ideale dittico. In questo festival, fino alla fine letteralmente costellato da donne e dai loro volti, Vitalina Varela riesce a rubare il nostro personale Pardo all’anziana protagonista di 143, rue du désert – visto nella sezione Cineasti del presente –, perché più bello, forte e autentico tra tutti i film.

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Costa costruisce un’opera radicale e insieme semplice. Una sorta di reincarnazione dello spirito di Victor Hugo tra i reietti sospesi nel limbo di un postcolonialismo senza fine. Immerso dall’inizio alla fine nel loro colore di pelle – che è anche quello della terra, cioè nel materico più concreto che esista – il film è girato per intero in una semioscurità, tra case povere e diroccate, dove la dimensione teatrale e quella cinematografica si rivelano praticamente inscindibili, così naturale è la consueta contaminazione tra le arti visive praticata da questo immenso regista, dove la pittura diventa scultura e viceversa.

È in definitiva una storia di follia, quella di una non-vita alla quale condanniamo intere generazioni di immigrati – e di poveri in generale – e alla quale ci siamo abituati. Una follia, o alienazione, che ha il colore della terra a cui queste ombre anonime che cerchiamo di non vedere sembrano condannate, aggirandosi senza pace nel limbo postcoloniale. Ma forse è vero il contrario. Forse non sono dei non-viventi, forse hanno vissuto eccessivamente, e in loro c’è troppa intensità, troppa vita, anche se sembra prosciugata dai potenti e dal loro determinismo, elaborato per spegnere tutte le loro speranze di realizzare l’anelito a una vita piena.

A Vitalina Varela, che dona il suo nome al film e che ha già recitato per Costa in Cavallo Denaro, è andato il premio per la migliore interpretazione femminile. L’attrice ha incantato tutti al momento della premiazione, grazie a parole misurate, che rivelavano tutto il suo pudore. Il suo personaggio domina su tutto e tutti, interroga la sua coscienza e la nostra, dando, malgrado tutto, senso alle cose della vita. Pedro Costa, maestro dei chiaroscuri sprigionati dal colore – quasi un po’ una variante moderna di Rembrandt, a cui aggiunge un penetrante sguardo anticoloniale e insieme umanistico – realizza una magistrale opera morale sulle ombre della nostra coscienza, illuminando l’oscurità di una luce come minimo metafisica. Se non da “illuminazione” tout-court.

Due premi importanti
Il sudcoreano Pa-go (Height of the wave), di Park Jung-bum, a cui è andato il secondo premio per importanza, il premio speciale della giuria, è un film molto interessante, coraggioso e profondo. Il regista, giunto al suo terzo lungometraggio – il secondo, Alive, era stato presentato nel 2014 a Locarno –, è stato aiutoregista di uno degli autori più significativi del cinema contemporaneo sudcoreano, cioè Lee Chang-dong, del quale a settembre vedremo nelle sale italiane lo straordinario Burning, presentato in concorso a Cannes nel 2018.

Park Jung-bum forse ha scelto una forma filmica un po’ troppi algida, benché molto ragionata, per mettere in scena il suo notevole racconto. Notevole perché è comunque straordinaria la galleria di personaggi – tutti appartenenti a una comunità rurale – costruita dal regista, e attraverso cui affronta temi gravi e oscuri, come lo sfruttamento più bieco del debole dietro l’apparente rispettabilità.

Ben felici del premio andato per la miglior interpretazione maschile all’attore Regis Myrupu, un uomo diviso tra la civiltà e la giungla in Amazzonia in Febre, il bel film brasiliano che ha aperto il concorso, girato dall’esordiente Maya Werneck Da-Rin. Un film di atmosfere e metafore profonde che, se rivisto, crediamo si assapori ancora di più.

Menzioni speciali
Due menzioni speciali, infine. La prima all’indonesiano Hiruk-pikuk si Al-kisah (The science of fictions) di Yosep Anggi Noen, film di chiusura del concorso, un po’ satirico e un po’ visionario, con qualche punto in contatto con il cinema del filippino Lav Diaz. È una surreale e straniante metafora degli orrori del regime autoritario di Sukarno, che parte da fake news come il presunto non allunaggio sulla luna.

La seconda menzione, davvero meritata, è andata al film Maternal, produzione italiana, ambientazione e regia argentina, firmata da Maura Delpero, del quale ho scritto qui.

Il Pardo d’oro di Cineasti del presente, la principale sezione parallela, è andato all’eccellente film d’esordio del giornalista e scrittore senegalese Mamadou Dia, Baamum Nafi (Nafi’s Father), che vince anche il premio per la miglior opera prima. Un film appassionante, un ritratto vivido, e vitale, di una comunità, quella che abita in un villaggio immaginario – ma che richiama quello natale del regista – ai confini della Mauritania, paese sconvolto dalla follia del fondamentalismo religioso.

Alassane Sy, l’attore che interpreta il protagonista – il giovane e ammalato imam del villaggio – porta sulle proprie spalle il film, ma tutti i personaggi e le interpretazioni sono di prim’ordine. Soprattutto sono molto vere, umane. Si indovina il grande amore di Dia verso il cinema neorealista. Ci sono personaggi più importanti, ma ogni personaggio secondario nel corso del film cresce, e si rivela meno secondario di quello che era in apertura, a cominciare dal ragazzino che gioca sempre con il copertone.

Film corale e intimo, film di radiografia sociale e pedagogico, film politico ma con la sensibilità delicata e ariosa dell’acquarellista, è anche una sorta di distopia – non molto esplicita, e questo accresce la sua forza e bellezza –, che consente di ragionare su cosa accade quando in una comunità entra un elemento estraneo per pervertirla, soffiando sul fuoco delle frustrazioni e, potremmo quasi dire, sulle presenze demoniache nascoste in ciascuno. Qui un ricchissimo sceicco e il figlio finanziano e formano terroristi, ma estendendo lo sguardo si può pensare a Salvini e Steve Bannon, Trump e Bolsonaro, fino ai casi più estremi, come quelli di Adolf Hitler. Ma si pensa soprattutto ai primi, tutti piuttosto grotteschi. Perché una volta estirpata – con coraggio e astuzia – questa malerba rivela appunto il grottesco, nascosto nella tragedia. E la comunità torna a essere una famiglia, semplicemente più estesa.

Se ne auspica quindi l’uscita in Italia, come del resto per 143, rue du désert, tra le opere più belle viste al festival. Al suo regista, l’algerino Hassen Ferhani, è andato il premio per il miglior regista emergente, e anche qui crediamo che sia un ottimo esempio di film teorico e insieme molto diretto, che dovrebbe trovare una distribuzione italiana.

Premio speciale della giuria Ciné+ Cineasti del presente al rumeno-serbo Ivana Groaznica (Ivana the terrible), di Ivana Mladenovic, curiosa commedia in qualche modo pacifista. Noi avremmo preferito che andasse a Space dogs, premiato invece dalla giuria dei giovani, gioiello inclassificabile, che ci è parso il miglior film della sezione, insieme ai due film africani. Il fatto che i due premi maggiori siano andati all’Africa, del tutto meritatamente, ci pare comunque un fatto molto significativo.

Un bilancio nel complesso più che positivo per la nuova direzione di Lili Hinstin, qui alla sua prima prova. Servono, e non solo a Locarno, da un lato più opere fuori dai canoni, degli ufo, ma dalla costruzione potente e rigorosa, e dall’altro più opere “ponte” tra la dimensione sperimentale e la forma classica. Opere come 143, rue du désert e Space dogs ne sono un buon esempio.

Infine, una rassegna di prim’ordine come Black light, che comprende il cinema nero sotto tutte le latitudini, vista l’importanza e la rarità di molte delle opere presentate (o anche della difficoltà di vedere in buona copia e su grande schermo titoli fondamentali del cinema bianco che hanno saputo dare uno sguardo vero, empatico e profondo verso i neri e la loro condizione come Uptight, capolavoro del 1968 di Jules Dassin) meriterebbe di trovare un qualche proseguimento anche oltre il festival. In altri luoghi o in contenitori tecnologici adeguati (dvd, blue ray).

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