09 agosto 2019 12:33

Il festival di Locarno, giunto alla sua 72ª edizione, si apre più che mai all’insegna delle donne e in generale di un ampliamento degli aspetti più innovativi nella selezione dei titoli. Evidente fin dalla scelta di Lili Hinstin – che, tra le altre cose, ha avuto un ruolo di rilievo nella manifestazione parigina Cinéma du réel – come nuova direttrice artistica del festival dopo Carlo Chatrian, primo italiano che dall’anno prossimo avrà l’onore e l’onere di dirigere il festival di Berlino.

Già da questa scelta si poteva arguire una più grande attenzione riservata alle donne, che avevamo già sottolineato nelle cronache delle ultime due edizioni del festival del Canton Ticino.

Hinstin ha portato una nuova squadra di giovani selezionatori, come lo statunitense Nicholas Elliott e il francese Antoine Thirion – che hanno collaborato a lungo con la prestigiosa rivista francese Cahiers du cinéma – e con una quasi equivalente presenza di donne. Tra cui, oltre alla stessa Hinstin, l’italiana Daniela Persico, unico anello di congiunzione con la squadra passata, ma qui promossa al ruolo di selezionatrice.

Potenza e originalità
È quindi inevitabile che il vento nuovo al femminile coinvolga anche la programmazione. Inoltre, è evidente fin dai titoli programmati nel Concorso internazionale una forte attenzione agli autori più originali e potenti, alle tendenze e ai paesi dalla cinematografia più viva, come il Brasile o il Portogallo, quest’ultimo presente direttamente con due film, Technoboss, di Joâo Nicolau, e soprattutto Vitalina Varena, che segna il ritorno di Pedro Costa, uno dei nomi più significativi del cinema contemporaneo, con un film incentrato sul percorso di una donna capoverdiana che torna a Lisbona poco dopo la morte del marito. Oppure in maniera indiretta con O fim do mundo dello svizzero-portoghese Basil Da Cunha, la cui produzione batte bandiera svizzera.

Ma sono molti anche i titoli provenienti dalla Francia, dall’Asia, e singole opere dagli Stati Uniti, dalla Spagna o dalla Germania, oltre alla coproduzione italo-argentina Maternal di Maura Delpero, che firma anche la sceneggiatura. Estendendo lo sguardo alla principale sezione parallela, Cineasti del presente, per esempio accanto a due film africani, 143 rue du désert, dell’algerino Hassen Ferhani, e Baamum Nafi, del senegalese Mamdou Dia, troviamo due film di produzione italiana, uno firmato da un regista italiano, L’apprendistato di Davide Maldi, e uno da un cinese, The cold raising the cold di Rong Guang Rong, giovane autore dal complesso passato personale.

Voglia di politicamente scorretto
Anche nella selezione dei film per piazza Grande e per i suoi oltre ottomila spettatori, si è scelto quest’anno di privilegiare titoli più d’autore, pur rimanendo accessibili. E così, oltre alla consueta ospitalità di alcune opere provenienti da Cannes, come Once upon a time in Hollywood di Quentin Tarantino e La famosa invasione degli orsi, il lungometraggio d’animazione di Lorenzo Mattotti, troviamo strani “ufo” come New acid, film franco-svizzero di Basim Magdy, che firma praticamente tutto oltre alla regia, dalla fotografia al montaggio, passando per il character design, su un immaginario scambio di sms tra gli animali.

Presentare l’irriverente regista pop John Waters in piazza Grande è di certo una prova di anticonformismo

C’è poi il nuovo film di una delle registe più interessanti del giovane e prolifico cinema francese, Valérie Donzelli, con Notre Dame. E uno dei più raffinati registi giapponesi viventi, Kiyoshi Kurosawa – specialista nell’usare l’horror per parlare con profondità e non di rado con poesia della solitudine umana – con To the ends of the earth. E ancora tributi, come quello a John Waters, che sarà premiato con il Pardo d’onore, e di cui sarà proiettato A morte Hollywood, splendido film del 2000 con Melanie Griffith e Maggie Gyllenhaal. Presentare in piazza Grande, ospite del festival, un regista pop statunitense così irriverente – anche se storico – è certamente una prova di anticonformismo e voglia di politicamente scorretto.

Senza dimenticare Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, che lancia la rassegna Black light, importante retrospettiva dedicata al cinema black, accompagnata da un catalogo con saggi (ordinabile su internet). Il progetto prevede non solo registi statunitensi come Melvin Van Peebles, ma anche grandi nomi africani come il senegalese Ousmane Sembène, oltre a film di registi bianchi come lo statunitense Jules Dassin che con Uptight, del 1968, ha firmato un importante ritratto della comunità afroamericana a Cleveland, prima grande città ad aver eletto un sindaco nero e unica città a non aver reagito in maniera violenta all’assassinio di Martin Luther King.

Ma piazza Grande ha visto anche come film d’apertura, Magari di Ginevra Elkann, un’opera d’esordio con Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, un film famigliare che guarda al passato, alla memoria recente (gli anni ottanta) con lo sguardo di tre fratelli e del quale bisognerà parlare al momento della sua uscita italiana (lo porterà in sala la Bim).

Richiamo della foresta
E poi il film brasiliano d’apertura del Concorso internazionale firmato da una donna come pure il secondo film del Concorso, During revolution della siriana Maya Khoury, in cui la regista ha ripreso con discrezione i propri concittadini tra il 2011 e il 2017. Questo film, che si annuncia come uno degli eventi del festival, ambisce però ad andare oltre il diario di guerra collettivo seguendo alcuni attivisti politici e radiografando la grande difficoltà a superare muri di vario genere, in primo luogo quello confessionale. Registe che, sempre più, non solo raccontano le donne, ma ambiscono a raccontare anche gli uomini e gli esseri umani in generale. Proprio come farebbe un uomo. Segno di una libertà che comincia a essere acquisita.

È davvero una sorta di richiamo della foresta, per citare Jack London, quello sentito da un operaio indio in A febre, il bel film della brasiliana esordiente Maya Da-Rin che ha aperto il Concorso internazionale. Una donna che racconta con empatia il percorso di un uomo di 45 anni in un ambiente sociale tra i più umili, un percorso sia fisico sia interiore, due livelli che si mescolano a tal punto da risultare via via sempre più difficili da distinguere.

Empatia è proprio il termine che l’équipe del festival ha scelto per quest’opera e ci pare il più adatto anche a noi. È davvero sensibile questa narrazione di sommovimenti interiori di una spaccatura, di una faglia interiore in Justino, calmo e affettuosissimo padre di una figlia a lui molto legata ma che si appresta a partire per fare i suoi studi di medicina a Brasília, lasciandolo solo nella città di Manaus, non lontana dalla foresta amazzonica.

La febbre di Justino sale dal vivere in mezzo a due opposti, la civiltà (bianca) e il suo popolo d’origine

Quest’uomo quieto, è la parola più appropriata, nelle sue relazioni con gli altri, vive un terremoto interiore che lo porta sempre più vicino alla giungla, che sembra volerlo risucchiare, ricondurlo alle sue origini di indio del popolo desana. Il suo guardare i giganteschi container del cantiere portuale dove lavora somiglia molto a una contemplazione e al contempo a uno stare già “fuori” dal mondo civilizzato. È un inquadratura ricorrente. Non vediamo quello che guarda ma lo vediamo che guarda, silenzioso, come ammaliato.

Ma è anche la maniera della regista di filmare i luoghi, che si tratti dell’immensa favela di notte, con una panoramica, o riprendendo le sue stradine, o ancora le reiterate sequenze dove Justino torna a casa di notte in un bus, a creare magia ed empatia e al contempo annunciare allo spettatore il progressivo scivolamento del protagonista verso le sue origini, verso le sue radici, verso il primordiale.

Il sogno come salvezza
Ora è libero visto che la figlia ha scelto la sua strada, ora è il tempo per lui di (ri)trovare la propria. La sua stanchezza di essere sempre in mezzo a due opposti, sul ciglio della foresta e di quello della civiltà (bianca), lo segna nel profondo, anzi lo sfinisce. Da qui la febbre del titolo che lo porta da un medico all’altro. Il suo essere né carne né pesce, per usare una formulazione prosaica, è quello che lo sta svuotando tanto interiormente che fisicamente.

Può balenare nella testa dello spettatore più cinefilo una parziale prossimità di tematiche e metafore con il geniale regista tailandese Apichatpong Weerasethakul, autore, anche se purtroppo poco conosciuto da noi, di titoli imprescindibili del cinema contemporaneo come Tropical Malady (2004) o Zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (2010, Palma d’oro al festival di Cannes).

Tuttavia, il film d’esordio di questa regista, che ha esposto, oltre che a Locarno, al MoMa e al New Museum, trova una sua bella forza autonoma, anche perché il lento scivolare nell’onirico, nel sogno come nuova realtà, non distrugge la psiche, ma anzi è qui sinonimo di salvezza.

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