Partecipo a un incontro con studenti e dottorandi in ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica alla Sapienza di Roma. Sono felicemente stupita dalle loro domande sull’ingegneria dell’invisibile: fare un film è in effetti un’opera ingegneristica, si tratta di tenere in equilibrio qualcosa che tende a cadere. E forse più precario è l’equilibrio, più miracolosa ci appare la semplicità della sua forma. Fare un film è anche costruire una casa in cui gli spettatori vanno ad abitare per un po’. C’è da limitare uno spazio, alzare dei muri, aprire finestre. Ci sono film in cui si sta stretti e film troppo vuoti e grandi. Film in cui ci si sente bene e si va in cucina a fare un caffè, e film in cui si prova disagio e le finestre sono murate. Per molto tempo le leggi che regolavano il costruire sono state intrecciate con l’invisibile: si costruiva una casa o un tempio in un punto preciso perché era caro agli dei, perché c’era una certa luce, perché là si era poggiata una civetta. Tutte cose che oggi sembrano ridicole. Sarebbe bello poter bloccare il progetto di un inceneritore perché gli dei non lo vogliono o annullare una speculazione edilizia perché contrasta la direzione del Sole. Come mai nel costruire non ci si sente più legati a un ordine altro rispetto a quello dell’interesse immediato? Viviamo nel tunnel dell’austerità della percezione. E già a scriverle, queste parole, sembrano pazzia.

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Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati