Cosa dovremmo pensare del battibecco tra Stati Uniti e Arabia Saudita dopo l’annuncio di un drastico taglio della produzione di petrolio fatto il 5 ottobre dal cartello Opec+ (di cui fanno parte i tredici paesi dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, tra cui Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più altri stati come la Russia)?

Gli analisti e i funzionari statunitensi ed europei hanno definito la mossa saudita un tradimento e un atto ostile contro gli alleati occidentali coinvolti nella guerra in Ucraina. Molti la considerano un’umiliazione personale per il presidente Joe Biden: Riyadh si schiera con Mosca, nonostante il saluto caloroso riservato dal presidente statunitense al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman durante la sua visita a Jeddah a luglio, che tra l’altro contraddiceva la promessa fatta in campagna elettorale da Biden di rendere l’Arabia Saudita uno “stato paria”.

Per analizzare la situazione servono un orizzonte temporale più lungo e un contesto più ampio

I funzionari statunitensi ora stanno considerando una serie di ritorsioni, tra cui l’interruzione della vendita di armi e il ritiro di tutti i tremila soldati americani dall’Arabia Saudita e di altri duemila dai vicini Emirati Arabi Uniti. Pochi giorni fa, inoltre, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati, ha avuto un incontro amichevole con Vladimir Putin a Mosca.

Nel momento in cui i sauditi sembrano ignorare gli avvertimenti di Washington di non procedere con il taglio della produzione petrolifera, io non posso fare a meno di pensare alle lezioni della storia. Per analizzare questa situazione potrebbero essere necessari un orizzonte temporale molto più lungo e un contesto più ampio.

Negli ultimi 54 anni ho raccontato il Medio Oriente moderno e i suoi legami con gli Stati Uniti. Ho dedicato vent’anni anche a scrivere libri sull’archeologia e l’eredità lasciata dall’impero romano nella regione. Le questioni immediate sono senza dubbio importanti, e in continua evoluzione visti i tanti fattori che determinano il prezzo del petrolio: la guerra in Ucraina, le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti a novembre, le preoccupazioni arabe sull’Iran e il ruolo di Russia e Cina in Medio Oriente. Ma potrebbero non essere il modo migliore di inquadrare e comprendere la situazione.

Nella regione infatti da millenni esiste una storia più profonda, che oggi sta rialzando la testa nel modo più drammatico: quella della tracotanza imperiale. Se andiamo indietro all’Oriente romano, le potenze dell’impero avevano delle aspettative rispetto alla popolazione locale che poi si rivelarono sbagliate. In tutta la lunga storia del Medio Oriente, la volatilità di queste relazioni ha spostato l’ago della bilancia dalla conquista alla ritirata.

Nella rottura tra Joe Biden e Mohammed bin Salman ci sono molti echi di questo lontano passato. Vale la pena di ricordare un antico episodio che coinvolse una potenza imperiale straniera e lo stato dominante nella penisola arabica, come documentato dal geografo greco Strabone all’inizio del primo secolo aC.

Da anni Riyadh vuole proteggere i suoi interessi vitali senza chiedere il sostegno delle potenze straniere

Nel 25 aC una spedizione militare romana partì dall’Egitto per conquistare tutta l’Arabia, in particolare i redditizi stati dell’Arabia felix coinvolti nel commercio delle spezie, nell’attuale Yemen. Circa diecimila soldati romani ed egiziani partirono da Suez per attraversare il mar Rosso, accompagnati da 1.500 soldati nabatei , un popolo di commercianti dell’Arabia antica, ed ebrei.

I nabatei, dalla loro capitale Petra, nell’attuale Giordania, accettarono di assistere i romani e mandarono un amministratore locale di nome Syllaeus per guidarli a sud attraverso il deserto arabo. Ma le cose non andarono come previsto, e dopo sei mesi di vagabondaggio attraverso quel terreno aspro, e dopo aver perso molti uomini e provviste, i romani si ritirarono e non tentarono mai più di conquistare l’Arabia. Uno scaltro nabateo, che loro pensavano fosse un alleato fidato, li aveva fatti girare in tondo e aveva vanificato le mire imperiali di Roma.

Perché i romani fallirono in Arabia? Perché ignoravano le realtà locali, avevano un’idea sbagliata dei loro abitanti ed erano convinti che i desideri imperiali di Roma sarebbero stati realizzati diligentemente anche se non erano nell’interesse di quei governanti e di quei regni, come i nabatei, decisi a mantenere il controllo del commercio di spezie (Roma dipendeva da loro per alcune spezie preziose). Il fallimento di questa spedizione è così importante nella storia antica del Medio Oriente che gli storici la considerano anche un segno precoce del graduale ritiro dell’impero romano dalle terre lontane nei secoli successivi.

I paralleli con gli Stati Uniti contemporanei sono affascinanti. La rabbia degli statunitensi contro la decisione dell’Opec+ e l’insistenza dei sauditi nel perseguire politiche che ritengono più convenienti per i loro interessi sono segnali di una relazione disfunzionale. I rapporti tra Washington e Riyadh furono consolidati negli anni quaranta – i vari fattori trainanti, materiali e ideologici, petrolio, commercio e investimenti, anticomunismo, militarismo, la salvaguardia dell’autocrazia nel perseguimento insaziabile della cosiddetta stabilità – oggi non coesistono più facilmente.

A essere onesti, già durante il regno del re Abdullah, dal 2005 al 2015, la leadership saudita (che a mio parere da decenni è una forza negativa per la regione) fece capire che Riyadh e il suo sempre più assertivo vicino e alleato, gli Emirati, avrebbero cominciato a prendere iniziative per proteggere i loro interessi vitali senza chiedere il sostegno delle potenze straniere, cioè degli Stati Uniti. Questa tendenza si è accelerata dopo le primavere arabe, quando i governanti del Golfo hanno temuto che le rivolte popolari scoppiassero anche in casa propria. Hanno pensato perfino di sabotare la politica estera di Washington nella regione, quando si sono opposti all’accordo nucleare firmato dal presidente Barack Obama con l’Iran e altre potenze mondiali. In seguito però, sotto la direzione del principe ereditario Mohammed bin Salman, che di recente si è autonominato primo ministro saudita, la cosa ha raggiunto dimensioni spregiudicate, perfino criminali.

Mentre rendeva noto che, come gli Emirati, non sarebbe diventata uno stato vassallo di Washington, l’Arabia Saudita ha intrapreso iniziative aggressive che sono fallite oppure hanno prodotto forti reazioni internazionali: l’embargo del Qatar; la guerra in Yemen; l’adozione di un autoritarismo della sorveglianza; il corteggiamento di leader occidentali di destra come Donald Trump; l’incarcerazione di centinaia di personalità di spicco saudite accusate di corruzione; l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi e il sequestro dell’ex primo ministro libanese Saad Hariri, per citare solo quelle più gravi. Wash­ington e altre potenze straniere che sono in stretti rapporti con Riyadh generalmente hanno accettato in silenzio, se non favorito attivamente, queste violazioni.

Il cambio di politica fa capire alcune cose sui leader sauditi. Quando sono stati realmente minacciati, come nel caso degli attacchi con i droni del 2019 nell’est del paese (attribuiti all’Iran) contro gli impianti della compagnia petrolifera statale saudita Aramco, non hanno potuto contare sugli Stati Uniti. Hanno fatto i loro interessi in materia di energia, commercio e tecnologia con potenze come la Russia e la Cina, pur mantenendo stretti legami con Wash­ington. Le politiche statunitensi nella regione sono state strategicamente incoerenti e hanno servito al di sopra di ogni altra cosa le priorità nazionali (e spesso israeliane).

Il furore per i tagli della produzione annunciati dall’Opec+ coglie tutte queste forze inconciliabili. Riyadh sembra aver reagito ai tentativi di Washington di supervisionare la produzione di petrolio saudita. Anche il regno – e più di tutti Mohammed bin Salman – sembra impassibile di fronte al fatto che la sua decisione danneggerà l’economia americana ed europea, lo sforzo bellico in Ucraina contro la Russia e le fortune elettorali di Joe Biden alle elezioni di metà mandato a novembre, aiutando la Russia, e forse perfino l’Iran.

Biden ha promesso che “ci saranno conseguenze”, ma come risponderanno effettivamente gli Stati Uniti? Mostreranno di avere in qualche modo capito le trappole della storia nella penisola arabica e le lezioni apparentemente eterne del fallimento degli imperi troppo superbi? ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1483 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati