Di fronte alle nuove sfide sociali, climatiche e geopolitiche, l’Europa non ha altra scelta se non reinventarsi. È con questo spirito che una nuova organizzazione nata nel 2022 si è riunita il 1 giugno in Moldova: la Comunità politica europea (Cpe). Questa iniziativa merita di essere elogiata. Mettendo insieme 47 paesi, dal Regno Unito all’Ucraina, dalla Norvegia alla Svizzera, la Cpe ci ricorda che i confini dell’Unione europea non sono fissati in eterno. Le discussioni e la cooperazione devono estendersi a tutto il continente e anche oltre, se non altro per difendere regole e princìpi politici comuni. Tuttavia, è evidente che la Comunità politica europea comprende talmente tanti paesi che farà ancora più fatica dell’Unione a mettere insieme le risorse necessarie per avere un peso negli sviluppi internazionali.

Quindi è indispensabile completare questa architettura a più livelli con uno zoccolo duro costituito da pochi stati pronti a spingersi più avanti nell’alleanza politica. Questo primo nucleo potrebbe prendere il nome di Unione parlamentare europea (Upe). L’Upe potrebbe ricalcare il modello dell’Assemblea parlamentare franco-tedesca (Apfa), istituita nel 2019 in occasione del rinnovo del trattato bilaterale che lega Parigi e Berlino, ma aprendola a tutti i paesi che lo vorranno e dandole poteri reali, mentre oggi l’Apfa svolge un ruolo puramente consultivo.

L’Unione parlamentare europea dovrebbe comprendere almeno Francia, Germania, Italia e Spagna, dove vive più del 70 per cento della popolazione europea

Idealmente l’Unione parlamentare europea dovrebbe comprendere fin dalla sua creazione almeno la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna, che insieme costituiscono oltre il 70 per cento della popolazione e del prodotto interno lordo dell’eurozona. Ma se non ci fossero alternative, l’Upe potrebbe anche partire con solo due o tre paesi. Con il tempo, l’obiettivo naturalmente sarebbe convincere i 27 stati dell’Unione – o anche i 47 paesi della Cpe o altri – ad aderire a questo gruppo centrale. Ma forse ci vorranno anni per dimostrare agli occhi dell’Europa e del mondo che nel ventunesimo secolo è possibile concepire una nuova unione transnazionale e democratica.

Quali sarebbero i poteri e gli obiettivi dell’Unione parlamentare europea? L’idea è di basarsi sul principio del vantaggio sociale, ambientale e fiscale. In altre parole, l’Upe dovrebbe permettere ai paesi che ne faranno parte di progredire in quei campi se c’è una maggioranza pronta a farlo senza, al tempo stesso, impedirgli di procedere in questa direzione con i propri mezzi. Deve espandere quello che è stato il successo storico dell’Europa dal dopoguerra, cioè il consolidamento della democrazia parlamentare e la costruzione dello stato sociale.

Concretamente, l’Upe avrebbe il potere di adottare un bilancio sugli investimenti per il futuro, insistendo in particolare sulle infrastrutture energetiche e sui trasporti, la riqualificazione termica degli edifici e su un grande piano di finanziamenti in sanità, formazione e ricerca. Questo bilancio sarebbe votato da un’assemblea europea composta da parlamentari provenienti dai paesi dell’Upe, in proporzione alla popolazione e ai gruppi politici presenti nei parlamenti nazionali.

L’assemblea europea avrebbe anche il potere di contrarre prestiti comuni per finanziare il bilancio. Naturalmente sarebbe necessario fissare dei limiti a questo potere. Ma per fronteggiare le crisi del futuro è essenziale poter prendere delle decisioni in modo più reattivo di quanto non permettano le attuali regole dell’unanimità dell’Unione. Nel 2020 ci sono voluti mesi per convincere tutti gli stati europei a lanciare per la prima volta un prestito congiunto. Solo l’urgenza causata dalla pandemia e il lockdown di centinaia di milioni di europei hanno permesso di sbloccare la situazione. Non è un modo di operare efficace, e soprattutto non ci permetterà di affrontare le sfide future.

Nel solco del Manifesto per la democratizzazione dell’Europa lanciato nel 2018, che aveva raccolto più di centomila firme, l’Upe potrebbe anche adottare delle tasse comuni più sostanziose sui profitti delle multinazionali, sui redditi e sui patrimoni più alti, e sulle emissioni di anidride carbonica.

In generale, il contesto degli ultimi anni permette di andare ancora oltre e di sostituire il defunto trattato di Maastricht con una nuova visione sociale e democratica del progetto europeo. Per esempio, si potrebbe immaginare che i paesi dell’Upe le affidino il compito di fissare delle regole sulla rappresentanza dei lavoratori nella gestione delle imprese o sul sistema di finanziamento dei mezzi d’informazione e delle campagne elettorali.

Questo percorso è tutto da inventare. Ma bisogna insistere su due punti. In primo luogo, la possibilità di una rapida revisione dei trattati europei a 27 è un’illusione. Secondo, nessuna regola attuale impedisce a un nucleo di paesi europei di fare dei passi avanti. Un motivo in più per cominciare subito. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati