20 ottobre 2016 14:36

Curvo su una panchina in un villaggio del Senegal sudorientale, privo di vita se si esclude il belato occasionale delle capre e il crepitio di qualche vecchia motocicletta, Aliou Thiam, 28 anni, ha in testa un solo sogno. Thiam si sta preparando a lasciare sua moglie, i suoi due figli e l’unica vita che ha conosciuto finora in vista di un obiettivo che condivide con molti giovani in tutto il Senegal: raggiungere l’Europa.

“Qui non ho niente. Ecco perché voglio andarmene, perché devo andarmene”, dice, lanciando delle occhiate ai tanti uomini distesi poco distante all’ombra, appisolati nell’immobile e afoso pomeriggio. “L’unica cosa che conosciamo è l’emigrazione”, dice Thiam. “Emigrare significa avercela fatta”.

Migliaia di giovani uomini senegalesi partono ogni anno per l’Europa, rischiando la vita con viaggi pericolosi attraverso il deserto del Sahara e il mar Mediterraneo. La maggior parte di questi viaggi fallisce. In tanti muoiono.

Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), il Senegal è tra i primi dieci paesi di origine dei migranti giunti in Italia quest’anno, oltre a paesi come l’Eritrea, il Mali e la Nigeria, afflitti dalla guerra o da gravi violazioni dei diritti umani. I giovani senegalesi però non scappano dalla guerra. Definiti migranti economici, cercano migliori condizioni di vita per se stessi e le loro famiglie e vedono nell’Europa l’unica via per un’esistenza dignitosa.

È una convinzione che affonda le sue radici nei decenni passati, quando generazioni di senegalesi si sono trasferiti in Europa, soprattutto in Francia, ex potenza coloniale, e hanno continuato a mandare soldi a casa. Oggi però sono sempre più numerosi i giovani uomini che tentano la sorte a causa dell’assenza di lavoro e dello sviluppo rallentato del paese africano.

Nonostante sia una delle democrazie più stabili e dalla crescita più rapida del continente, il reddito medio mensile in Senegal è inferiore a cento dollari, e una persona su otto non ha lavoro. L’aumento delle migrazioni ha scatenato un dibattito generalizzato sull’opportunità di trattare i migranti economici in modo diverso rispetto ai profughi che fuggono da un conflitto e ha alimentato il timore che la povertà possa crescere e la stabilità nazionale possa essere minacciata se le rimesse dovessero esaurirsi.

Privi di istruzione, di una formazione professionale e di un lavoro, Thiam e i suoi coetanei nell’area sudorientale della regione di Tambacounda, una delle più povere del Senegal, affermano di essere stati abbandonati dal governo, citando i terreni abbandonati, la carenza di posti di lavoro e l’assenza di programmi di formazione e avviamento professionale.

Nella regione di Tambacounda l’età media è di 20 anni e una persona su tre non ha lavoro

“In tutto il Senegal, ma soprattutto fuori Dakar, è diffusa l’idea che qui non puoi farcela, e che solo in Europa è possibile”, afferma Jo-Lind Roberts, che guida la missione dell’Oim in Senegal. “In Senegal non c’è speranza in una vita migliore”.

La regione di Tambacounda è uno dei principali punti di partenza in Senegal per le migliaia di giovani uomini diretti in Europa attraverso la Libia, dove la rivolta del 2011 ha provocato un vuoto nell’autorità statale. Secondo i dati del censimento condotto in Senegal nel 2013, due terzi dei 700mila abitanti della regione vivono in condizioni di povertà, rispetto a una media inferiore della metà nel resto del paese, che ha complessivamente 15 milioni di abitanti. Nella regione di Tambacounda l’età media è di 20 anni e una persona su tre non ha lavoro.

“Tutti questi giovani se ne stanno in giro senza fare nulla”, dice El Hadji Sao, segretario generale di Goudiry, uno dei quattro dipartimenti della regione di Tambacounda. “È sufficiente a provocare una rivolta”.

Dipendere dalle rimesse
Al centro di Goudiry, giovani uomini lavorano senza sosta in capanne di legno, riparano motociclette, saldano acciaio e cuciono abiti. Gli impieghi però sono pochi fuori Goudiry, dove si aprono vaste distese di terra arida e inutilizzata interrotte solo da alberi di baobab rinsecchiti e villaggi isolati. “Avere un lavoro con un salario qui a Goudiry è impossibile”, dice Yaya Diallo, 35 anni, che considera l’emigrazione in Europa come l’unico modo per nutrire sua moglie e i suoi figli. “Devo andare”.

L’emigrazione non è l’El Dorado sognato dalla gente. Significa entrare nella tana del leone

In mezzo a capanne dal tetto di paglia e case di mattoni di fango, i pochi ambulatori medici e le poche scuole costruite di recente, assieme a bizzarre case di cemento – alcune delle quali sormontate da pannelli solari e parabole satellitari – testimoniano l’importanza delle rimesse per la regione. “Tutto quello che vedete proviene da quelli che sono emigrati… tutti i progetti sono finanziati da loro”, dice Moussa Kebe, che è tornato in Senegal dopo aver trascorso due anni in Libia e ha fondato un’associazione per promuovere lo sviluppo nell’area. “Se qualcuno si ammala o ha bisogno di vestiti o cibo, dobbiamo rivolgerci agli emigrati. Quando muore qualcuno o si deve assegnare il nome a un bambino, chiamiamo loro. Vengono sollecitati di continuo”.

Nel 2015 gli emigrati senegalesi hanno mandato a casa almeno 930 miliardi di franchi cfa (1,5 miliardi di euro), una cifra che secondo i dati della Banca mondiale oscura gli aiuti internazionali al Senegal e rappresenta più del 10 per cento del prodotto interno lordo del paese.

Questo dato potrebbe in realtà essere molto superiore, perché non tiene conto delle valigie piene di contante che secondo gli esperti gli emigrati riportano a casa. Tuttavia, le rimesse spedite in Senegal potrebbero diminuire, perché i paesi europei stanno chiudendo le loro frontiere ed è più difficile trovare lavoro. È quanto sostenuto da Marta Foresti dell’Overseas development institute, con sede a Londra.

Consapevole di questo rischio, un funzionario del ministero degli esteri, Serigne Gueye, afferma che il governo sta lavorando per creare più opportunità di lavoro nell’agricoltura e spiegare i rischi di questo tipo di emigrazione: “Non è l’El Dorado sognato dalla gente, significa entrare nella tana del leone. Vogliamo che i migranti capiscano che ciò che ci sta a cuore non è che vivano all’estero, ma che riescano a tornare in Senegal”.

Lo stato sostiene inoltre il Programma di supporto alle iniziative di solidarietà per lo sviluppo (Paisd), che aiuta gli emigrati in Francia a mettere da parte ciò che guadagnano e a investire in progetti in Senegal, dai sistemi di energia solare alle scuole per la formazione meccanica.

Centinaia di giovani di Goudiry hanno bruciato i risparmi delle loro famiglie per andare in Europa ma hanno fallito

“Gliemigrati che vivono tra la Francia e il Senegal sono molto importanti sotto il profilo delle rimesse, sono dei fattori chiave dello sviluppo”, dice Raphael Renault del Paisd. Informare le persone dei rischi connessi all’emigrazione per convincerle a restare e al tempo stesso fare affidamento sulle rimesse per incentivare lo sviluppo, secondo Roberts dell’Oim rappresenta una strategia insostenibile. “Solo il 20-30 per cento delle rimesse è investito a beneficio della comunità, la maggior parte va direttamente alle famiglie”, dice. “Non si può pensare di innescare lo sviluppo nel giro di pochi anni, non funziona così”.

Divario generazionale
Il successo degli ex emigrati di Goudiry, arrivati in Europa diversi decenni fa e poi tornati a casa per godersi la pensione, ha ispirato le generazioni più giovani a seguirne l’esempio. Migliaia di senegalesi erano andati in Francia negli anni sessanta e agli inizi degli anni settanta, quando l’esplosiva crescita economica spinse il paese a reclutare operai dalle ex colonie per i lavori manuali. Sebbene la Francia abbia posto fine alla sua politica di importazione di forza lavoro nel 1974, gli ex emigrati di Goudiry che sono entrati in seguito nel paese illegalmente, raccontavano che i loro viaggi erano stati convenienti e sicuri.

Tuttavia, questi apripista ormai anziani temono che le loro esperienze possano aver stabilito un precedente pericoloso, anche se la maggior parte di loro aveva trovato un lavoro stabile che gli aveva permesso di risparmiare i soldi necessari a finanziare scuole, pozzi e cisterne idriche nel paese d’origine. “L’avventura è sempre difficile, ma ai tempi nostri non c’erano i problemi di oggi”, afferma Bocar Diallo, 63 anni, emigrato in Libia negli anni settanta e da lì partito in aereo per la Francia, dove ha lavorato per la Renault e per un aeroporto nei 33 anni trascorsi nel paese.

I giovani di Goudiry però non ascoltano.

Il proprietario di un garage a Goudiry, in Senegal, il 5 settembre 2016. (Mikal McAllister, Reuters/Contrasto)

Armati di smartphone e televisioni pagate in larga misura con i soldi delle rimesse, sono sintonizzati sui social media e su programmi televisivi che offrono un assaggio della vita in Europa troppo invitante per opporvi resistenza.

Samba Sidibe, ha una ventina d’anni e modi pacati. Racconta che i suoi amici di Goudiry che hanno raggiunto l’Europa lo chiamavano spesso per vantarsi delle loro nuove vite in Francia, in Germania e in Italia. “Un amico mi chiamava e mi raccontava che l’Europa è mille volte meglio dell’Africa”, dice Sidibe. “Poi andavo su Facebook e vedevo delle belle foto, così mi sono convinto a partire”. Sidibe è uno delle centinaia di giovani di Goudiry che hanno bruciato i risparmi delle loro famiglie per andare in Europa ma hanno fallito.

Secondo l’Associazione dei rimpatriati dalla Libia di Kebe, dal 2013 più di mille uomini sono partiti da Goudiry alla volta dell’Europa. Metà ce l’ha fatta, almeno cento sono morti lungo il tragitto e circa 350 sono stati rimpatriati dall’Oim e dai governi del Senegal e della Libia.

Rimpatriato dalla Libia l’anno scorso, Sidibe si trova oggi in una situazione ben peggiore di quanto avrebbe mai potuto immaginare. “Non posso starmene seduto con le mani in mano”, dice con aria cupa, lo sguardo fisso per terra. “Devo recuperare i soldi (circa duemila euro) per aiutare i miei genitori a uscire da questa situazione difficile. Se non trovo lavoro, sarò costretto a emigrare, per tentare la sorte un’ultima volta”.

Il deserto della morte
Partendo dalla stazione degli autobus di Tambacounda, gli aspiranti migranti di Goudiry prendono autobus, minivan e automobili per attraversare il Mali e il Burkina Faso e raggiungere la città nigerina di Agadez, in mezzo al deserto, il principale punto di transito nel Sahara per chi sogna di andare in Europa.

Per i giovani senegalesi, presenti fra i 300mila migranti che secondo l’Oim sono passati da Agadez quest’anno, comincia l’infernale viaggio di 1.200 chilometri fino a Sebha, nella Libia meridionale, un tragitto disseminato di banditi e bruciato dal feroce sole del deserto. “Il deserto è molto, molto peggio del Mediterraneo o della Libia, perché è un luogo in cui non hai nessuna speranza”, dice Ousmane Thiam, 24 anni, che come Kebe ha trascorso due anni in Libia e fa da portavoce all’Associazione dei rimpatriati dalla Libia.

Chi è spinto dal desiderio di farcela e di aiutare la sua famiglia, è come cieco di fronte a tutto questo

Le immagini dei migranti morti sulle coste europee hanno provocato un giusto sdegno globale, ma nel Sahara sta forse morendo un numero maggiore di africani diretti in Europa rispetto alle migliaia di morti nel Mediterraneo. È quanto ipotizzato dal gruppo 4mi, che traccia le rotte della migrazione.

Thiam e altri uomini di Goudiry che hanno attraversato il Sahara ricordano di essere stati stipati in automobili con altri 20 migranti, di avere avuto pochissima acqua al punto da essere costretti a bere la propria urina, di aver seppellito cadaveri lungo tutto il tragitto e di essere stati picchiati e derubati ai posti di blocco. “Ma non avevo scelta”, dice Thiam. “Se fossi tornato a casa, la gente avrebbe detto che avevo avuto paura, che non ero un vero uomo”.

Pur avendo sopportato il durissimo viaggio di un mese dal Senegal alla Libia, per Samba Thiam l’incubo era appena cominciato.

Thiam dormiva in un ricovero per migranti nella capitale libica di Tripoli quando la polizia ha fatto irruzione, l’ha arrestato e l’ha messo in carcere per tre mesi. “A volte ci picchiavano mentre pregavamo… persone innocenti sono state uccise pur non avendo fatto niente di male”, racconta. “Se chi parte potesse prevedere ciò che lo aspetta in Libia, non partirebbe. Ma chi è spinto dal desiderio di farcela e di aiutare la sua famiglia, è come cieco di fronte a tutto questo”.

Punto di rottura
Nonostante una crescente consapevolezza sui pericoli che s’incontreranno lungo il tragitto verso l’Europa e gli avvertimenti su ciò che li attende lanciati dai migranti che non ce l’hanno fatta, sono sempre di più i senegalesi a tentare la sorte in questo viaggio.

Secondo gli ultimi dati dell’Oim, quest’anno almeno seimila migranti senegalesi hanno raggiunto l’Italia attraverso il mare dalla Libia, più del totale del 2015. E per ogni uomo partito per l’Europa ci sono famiglie – mogli, figli e genitori – rimasti a casa.

Vivendo nel dolore e nella disperata attesa di notizie da chi è partito, queste famiglie spesso si affidano al sostengo delle loro comunità, dopo aver speso fino all’ultimo centesimo per pagare il viaggio del parente. Diverse vedove raccontano di non essere riuscite a impedire ai mariti di partire, e non avevano idea dei pericoli che avrebbero dovuto affrontare.

Il Senegal può progredire e svilupparsi se i giovani restano qui e lavorano qui

Nel villaggio di Ainimady, vicino a Goudiry, Falmata Diallo, 28 anni, osserva un gruppo di donne che spettegolano e ridacchiano mentre tessono arazzi floreali dai colori vivaci da usare come coperte o tappeti. Gli occhi le si riempiono di lacrime quando rivive il momento in cui suo marito è partito e il silenzio angosciante che ha dovuto sopportare da quando, un anno fa, l’ha chiamata per dirle che la sua imbarcazione era in pericolo. “Quando è partito, tutto il mio corpo è morto”, racconta Falmata, madre di tre figli, scossa dai singhiozzi. “Non potevo dire o fare niente… nessuno è riuscito a impedirgli di partire”.

Nel vicino villaggio di Lombi Sadio, Samba Anne, di 74 anni, e sua moglie hanno cercato di sopravvivere all’annegamento dei loro due figli nel 2014. “Sono partiti perché non avevano niente… ma stavano facendo di tutto per provvedere alla famiglia”, racconta Anne, cullando una foto dei suoi figli, morti a poco più di trent’anni. “Quando ho saputo della loro morte, sono finito”, ha aggiunto. “Non sono più una persona”.

Mentre dei bambini piccoli bisticciano per un sacchetto di arance e alcuni adolescenti inseguono un pallone lacero tirandolo verso una porta fatta di rami, l’ex emigrato Issa Thiam discute con il figlio del suo futuro. Ibrahim, 24 anni, possiede un piccolo negozio, ma in assenza di altre opportunità vuole andare in Europa per migliorare le condizioni di vita della sua famiglia.

“Conosco i pericoli… ma stare qui è più difficile che affrontare il viaggio perché se stai qui senza niente da mangiare o da bere, la vita diventa una crisi costante”, dice Ibrahim. Che tuttavia non partirà senza il permesso di suo padre. “Lo prenderò a schiaffi o lo tratterrò qui se potrò, mi rifiuto di dargli il permesso di andare”, dice Issa, che ha 68 anni. “Il Senegal può progredire e svilupparsi se i giovani restano qui e lavorano qui”.

I giovani di Goudiry però la pensano diversamente, si lamentano degli argini rotti, dell’assenza di un’agricoltura meccanizzata e della mancanza di fabbriche, di programmi di formazione e di sviluppo nella regione.

Al tramonto del sole a Toumbouguel, mentre le ragazze eviscerano il pesce e le donne lavano il riso per la cena, Aliou Thiam sorride con sarcasmo all’idea di poter avere una vita migliore in Senegal. “È meglio morire che restare qui”, dice Thiam. “Qui non ho niente”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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