02 novembre 2016 16:59

Dopo il Burundi e il Sudafrica, il 25 ottobre anche il Gambia ha annunciato l’imminente ritiro dalla Corte penale internazionale (Cpi), nata con lo statuto di Roma del 1998. “La nostra grande famiglia è in difficoltà”, ha dichiarato il giorno seguente il capo dell’ufficio degli avvocati della corte, Xavier-Jean Keïta. Secondo Keïta la decisione del governo di Banjul è “un attacco” diretto alla Cpi, “perché la procuratrice, Fatou Bensouda, è gambiana”.

La decisione del presidente Yahya Jammeh, spesso criticato per le violazioni dei diritti umani, ha una forte valenza simbolica. E fa aumentare la preoccupazione per un’uscita di massa dei paesi africani dalla giurisdizione del tribunale internazionale.

Tredici giorni prima del Gambia era stato il Burundi a fare un annuncio simile. Sprofondato in una nuova spirale di violenze, il governo di Bujumbura ha reagito all’indagine preliminare aperta ad aprile da Bensouda ritirandosi dalla Cpi. Questa mossa non impedirà alla causa di procedere, poiché la procedura di ritiro deve diventare effettiva.

Il duro colpo del Sudafrica
Per la Cpi però il colpo più duro è arrivato da Pretoria. Finora considerato uno dei più attivi sostenitori della Corte nel continente, il Sudafrica ha cambiato idea nel luglio del 2015. In occasione di un vertice dell’Unione africana (Ua) ospitato nel paese, Pretoria aveva accolto il presidente sudanese Omar al Bashir senza eseguire i mandati d’arresto emessi dalla Cpi nel 2009 e nel 2010 per genocidio e crimini contro l’umanità in Darfur.

Così facendo il governo di Jacob Zuma si è attirato dure critiche da parte dell’opposizione e della società civile. Il 22 ottobre, dopo l’annuncio del ritiro del Sudafrica, il presidente dell’assemblea degli stati membri della Cpi (l’organo legislativo della corte) ha chiesto al Burundi e al Sudafrica di “riconsiderare la loro posizione”. Inoltre Sidiki Kaba, presidente dell’assemblea, ha invitato al dialogo gli stati che si sentono tentati dalla prospettiva di lasciare il tribunale.

La prossima assemblea che riunirà i 124 paesi che fanno parte della Cpi si aprirà il 16 novembre e si prospetta piuttosto movimentata. Il Kenya promette battaglia: perseguito per crimini contro l’umanità, il presidente Uhuru Kenyatta aveva goduto di un non luogo a procedere nel dicembre del 2014 per mancanza di prove. Lo stesso era accaduto nelle altre cinque cause relative alle violenze postelettorali keniane del 2007. A settembre i giudici hanno comunque segnalato agli stati membri della Corte la mancanza di collaborazione da parte di Nairobi per tutta la durata del processo.

La Cpi era stata interpellata nel 2011 per i crimini commessi in Libia, conferendo un velo di moralità all’intervento militare della Nato

Il caso keniano aveva risvegliato la fronda dell’Unione africana che aveva preso forma già dopo il primo mandato di arresto spiccato contro Al Bashir nel 2009. L’Ua aveva chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di sospendere il procedimento contro il leader sudanese, come effettivamente consentito dallo statuto della Cpi, ma non aveva ottenuto risultati.

Il rifiuto del Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva fatto nascere la sensazione di una giustizia a doppia velocità, resa ancora più forte dal fatto che il Sudan non fa parte della Cpi. Quest’ultima era intervenuta su richiesta del Consiglio di sicurezza, nel quale tre dei cinque membri permanenti non aderiscono alla Cpi (Russia, Cina e Stati Uniti). La corte era stata di nuovo interpellata nel 2011 per i crimini commessi in Libia, conferendo un velo di moralità all’intervento militare della Nato che avrebbe portato a un cambio di regime.

Creata con l’obiettivo di prevenire crimini futuri e di consolidare la pace, la Cpi è stata al centro di tentativi di strumentalizzazione politica e diplomatica. È questa la posizione di vari paesi africani, a loro volta inclini a servirsene per i propri scopi. Numerosi capi di stato hanno a lungo trovato nella cooperazione con la Cpi uno strumento per tenere a bada gli oppositori.

La tentazione del Kenya
Quale sarà il prossimo paese ad annunciare l’uscita dalla corte? Si parla dell’Uganda, della Namibia, della Tanzania e del Kenya. Dopo l’elezione nel 2013 di Uhuru Kenyatta alla presidenza del Kenya, nonostante il mandato d’arresto che pendeva sulla sua testa, la minaccia del ritiro è stata costantemente evocata. L’Ua ha cercato invano una posizione unitaria contro la corte in occasione del vertice di Kigali a luglio. “A meno di un ritiro in massa, il Kenya non uscirà, e comunque non lo farà a breve”, commenta un diplomatico del paese. “I keniani hanno tutto l’interesse a restare nella Cpi per far valere il loro peso nell’assemblea”.

La questione della Cpi era stata affrontata anche in occasione della visita di Benjamin Netanyahu in Africa orientale lo scorso luglio. La corte non preoccupa solo gli africani. L’adesione della Palestina nel 2014, seguita dall’apertura di un’indagine preliminare sui crimini commessi nella Striscia di Gaza aveva suscitato una dura reazione in Israele. Che in seguito ha cambiato strategia, evitando l’opposizione frontale. All’inizio di ottobre una delegazione inviata da Bensouda è andata per la prima volta nel paese, precisando che il viaggio non era finalizzato a un’indagine. Il caso è particolarmente sensibile e la procuratrice procede con cautela.

Da tre anni Fatou Bensouda sta seguendo anche il caso afgano, che desta preoccupazione anche negli Stati Uniti i quali, secondo diverse fonti all’Aja, tentano in tutti i modi di saperne di più sul contenuto del dossier che li riguarda. Ma l’idea che la Cpi prenda di mira solo gli africani è dura a morire. Perché la corte, con il suo misero bilancio, la sua lentezza e le sue scelte discutibili offre molte armi ai suoi critici. In un comunicato, alcune personalità internazionali note per il loro impegno a favore della pace ricordano le parole di Nelson Mandela a sostegno della Cpi e invitano i tre stati che hanno annunciato il ritiro a “cambiare idea” e a “lottare dall’interno” per riformarla e fare in modo che possa amministrare “una giustizia efficace” e “rigorosamente neutra”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su Le Monde.

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