20 gennaio 2020 11:54

Ci sono stati i Modena City Ramblers che hanno suonato Bella ciao, i Marlene Kuntz e Marracash. C’è stato un breve videointervento di Francesco Guccini introdotto dalle note di Locomotiva. Alla fine è arrivato anche Moni Ovadia. La lunga giornata delle sardine a Bologna è stata piena di parole che hanno raccontato i “temi sociali”, come li ha definiti uno dei fondatori del movimento, Mattia Santori. Ma al movimento manca ancora una cosa, la più importante di tutte: la politica.

Eppure un’anima politica a questo punto sarebbe necessaria. Non necessariamente un’organizzazione politica, ma almeno una struttura ideale chiara, capace di dare una direzione certa e inequivocabile a tutte le parole ascoltate finora. Altrimenti, ci vuole poco perché anche le migliori intenzioni partoriscano soluzioni inquietanti.

“Dove c’è dialogo non c’è populismo”, ha detto Santori salutando la piazza bolognese, ed è vero. Ma se la soluzione per contenere la violenza online è quella di introdurre un daspo, ossia una sospensione dai social network, nel migliore dei casi c’è da preoccuparsi per l’ingenuità della proposta, e nel peggiore che dietro tante parole si rischi di scoprirsi un’anima piuttosto conservatrice, attirata da soluzioni che sanno tanto di legge e ordine, e che possono rappresentare strumenti pericolosi nelle mani del potere.

Il fatto è che quelle manifestate finora dalle sardine – ripristinare le buone maniere e ricollocare le relazioni tra persone nella realtà fisica e non solo in quella dei social network – sono aspirazioni sacrosante, che raccontano molto del disagio di quest’epoca, fatto emergere in forma collettiva dal movimento. Ma si tratta di istanze prepolitiche, che di per sé non basterebbero neanche a garantire il mantenimento degli obiettivi per un tempo ragionevole.

Un occhio di riguardo
Sia chiaro: per il momento, vista l’aria che tira, fanno benissimo le sardine a guardarsi attorno con circospezione e a prendersi tutto il tempo che credono per definire se stesse.

Dopo i lunghi mesi scanditi dai proclami salviniani, la loro irruzione sulla scena è apparsa a molti come una boccata d’ossigeno. Da qui, la capacità di raccogliere attorno a sé migliaia di persone attirate da parole d’ordine che parlano di pacificazione, ripudio della violenza e inclusione; il sostegno di certe forze politiche che, persa ormai da tempo ogni traccia di identità propria, si accodano come già avevano fatto in altre occasioni, senza avere molto da aggiungere a ciò che altri affermano; l’apertura di credito della stampa e la massiccia esposizione mediatica dei loro leader; e, infine, il racconto del fenomeno come se fosse un’epopea, o addirittura il segno di un risveglio della partecipazione democratica nel paese.

Curiosamente, lo stesso favore non è stato accordato ad altri. Non alle manifestazioni ambientaliste di questi ultimi mesi. E neanche alle grandi manifestazioni femministe. Nessuna di queste mobilitazioni è stata accolta e raccontata come se si fosse di fronte al risveglio della piazza democratica. Spesso, quelle proteste sono state trattate come se non rappresentassero questioni di portata generale, come se, rivendicando i propri diritti, le donne non stessero compiendo un atto integralmente politico ma stessero manifestando un’istanza di parte.

A quanto pare nessuno si sente davvero minacciato da questo movimento

La lotta delle donne è invece un fatto clamorosamente politico perché prova a introdurre un pensiero radicalmente critico nel dibattito pubblico. Di questi tempi è cosa rara e le donne lo stanno facendo quasi da sole. Insomma, le lotte femministe, ma anche questo nuovo genere di ambientalismo, mettono in discussione la struttura stessa del mondo nel quale siamo immersi, quella economica e quella sociale. Dunque, in ultima analisi, mettono in discussione il potere di per sé. Per questo trovano molta resistenza, e si va dal contrasto più duro fino allo sfottò di stampo paternalista, costruito quasi sempre su parole virili e muscolari da sempre riservate a chi, soprattutto se donna o giovane, non si uniforma al pensiero corrente.

Di tutt’altro genere appare la relazione delle sardine con la realtà nella quale sono immerse. Parrebbe esserci una certa affinità con il mondo al quale si rivolgono e con il quale non sembrano avere intenzione di aprire un vero conflitto. E, soprattutto, a quanto pare nessuno – neanche gli avversari – si sente davvero minacciato da questo movimento. E anche questo, se letto nella prospettiva di un cambiamento, non è un buon segno. Non è comunque una novità o una condizione che riguardi solo le sardine. È invece l’esito di un processo che si è sviluppato in questi ultimi decenni.

Omologazione al mondo adulto
Dagli anni settanta a oggi si è progressivamente passati dalla contestazione del potere alla mera protesta. Si è insomma passati dalla rivoluzione alla rivolta, per poi accontentarsi di ancor meno, salvo evidentemente alcuni settori minoritari della società. Svuotata di ogni carica destabilizzante, la contestazione – soprattutto quella giovanile – prima è diventata una stanca ripetizione di sé e poi ha finito per ritualizzarsi e trasformarsi in un semplice momento di passaggio, socialmente accettato e dunque innocuo, verso il mondo adulto. È, tra l’altro, il caso delle occupazioni delle scuole di questi ultimi anni.

Così, mancando la forza per immaginare di imporre nuove idee o di prendersi il mondo per cambiarlo, ci si è limitati sempre più spesso a chiedere all’autorità di essere ascoltati e di aprire la porta del mondo. Insomma, proprio mentre svaniva una idea politica di sé e della società, lo spazio lasciato vuoto cominciava a essere riempito dalla necessità di omologazione perfino come via di ingresso nel mondo adulto.

Almeno un paio di generazioni sono state costrette a fare i conti con un’incertezza che ha frazionato la loro esistenza in infiniti segmenti

Una società che incoraggia i giovani alla neutralità, e in cui i giovani sono costretti dalle necessità ad adattarsi a ciò che trovano, è evidentemente una società conservatrice. Altrettanto evidentemente, in un mondo tendenzialmente conservatore, la neutralità politica – o l’incapacità di accettarsi come un “corpo politico”, e quindi portatore anche di idee diverse e di cambiamento – si manifesta di fatto come conservazione. Una società così definita è come un organismo che, smettendo di rinnovarsi, si avvia verso la sua stessa fine, magari collocando illusoriamente altrove il pericolo, come dimostrano l’intolleranza risorgente verso ogni diversità o il razzismo tout court nei confronti degli immigrati.

A peggiorare le cose, ci si è messa la precarizzazione dei rapporti di lavoro che è anche precarietà della vita delle persone. Almeno un paio di generazioni sono state costrette a fare i conti con un’incertezza che ha frazionato la loro stessa esistenza in un’infinita sequenza di segmenti. E quando si fatica ad affermare la propria esistenza perché si è obbligati a comportarsi in eterno come giovani, poi diventa difficile anche solo immaginare di poter pretendere che il mondo prenda la propria forma. Alla fine, si accetta più facilmente la necessità di adattarsi al mondo così come lo si è trovato.

Non a caso, negli stessi anni nel dibattito pubblico non ha più trovato posto neppure un pensiero strutturato politicamente, si son fatte evanescenti le differenze tra le forze politiche e una sinistra oramai insipiente ha finito per proclamarsi liberale, come la destra.

È dunque comprensibilissima la difficoltà di pensarsi come corpo politico confessata dal leader Mattia Santori durante Mezz’ora in più su Raitre.

Ma proprio per questa ragione è importante recuperare un pensiero politico, anche se ci vuole molto coraggio. La politica è fatta di idee diverse che si confrontano, dialogano, si scontrano. La politica è anche conflitto. E il conflitto andrebbe coltivato, non eluso o sterilizzato. Soprattutto quando si è giovani, si dovrebbe avere il coraggio anche dello scontro con il potere per poterlo cambiare. Questo perché i tempi e i modi del potere sono i tempi e i modi delle persone che lo detengono in un determinato momento, ed è evidente che chiunque si trovi in quella condizione tende a non ascoltare altri che se stesso. Comunque, di certo non ascolta chi quella condizione la vorrebbe modificare. Dunque, se nelle intenzioni delle sardine c’è il cambiamento delle cose, chiedere permesso non serve.

Tuttavia, qualcosa forse si è mosso. La manifestazione a Riace del 6 gennaio scorso, per esempio, ha in parte rimediato alle incomprensibili mollezze di quella a piazza San Giovanni sui decreti sicurezza voluti dall’ex ministro Salvini. A Bologna si è forse fatto un ulteriore passetto in avanti ed è un bene perché è proprio nello spazio che sta tra la possibilità di un dibattito meno volgare e violento – come giustamente chiedono le sardine – e l’affermazione di idee più radicali e forti – che per ora sembrano mancare – che i movimenti potrebbero svolgere un ruolo decisivo.

Fermandosi al primo punto e mancando le idee, si rischia prima o poi di scoprirsi conservatori e di accontentarsi, bene che vada, delle solite chiacchiere sulla resilienza.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it