15 novembre 2014 18:47

Ho cominciato ad amare Claudio Caligari quando non avevo nemmeno diciott’anni. Come molti post-adolescenti romani, avevo trovato in Amore tossico un film di culto da citare con gli amici. “Frena i freni”, “dammi il pezzo”. Romanzo criminale vent’anni prima di Romanzo criminale. Dal 1984, anno dell’uscita e del successo clamoroso di Amore tossico, Caligari ha realizzato solo un altro film, L’odore della notte nel 1998. Anni rapaci, che qualcuno su internet dà come girato, si è in realtà fermato in fase di pre-produzione nel 2002.

In questi mesi, anzi in questi giorni, sta cercando di cominciare a girarne un altro. Valerio Mastandrea ha lanciato un appello a Martin Scorsese per raccogliere attenzione e soldi intorno a questo progetto. Scorsese non si è dato molto da fare, in compenso qualche produttore si è sentito in dovere di ricordarsi di uno dei più importanti registi italiani. Mentre arrivo a via dell’Acqua Bullicante, dove mi ha dato appuntamento, passo davanti al cinema Impero, chiuso da più di trent’anni. E faccio mentalmente una foto che mi terrò in testa per tutto il tempo.

Mi parli del tuo nuovo film, sia da un punto di vista poetico che produttivo?

Dai tempi di Amore tossico, ossia trent’anni fa, ho sempre mantenuto delle relazioni personali da cui mi arriva materiale di prima mano da cui far crescere le storie. Mi raccontano quello che succede, cosa cambia… A un certo punto mi è venuto il riflesso condizionato di un nuovo film che fotografasse la situazione della realtà sociale oggi.

Ma non mi sono fermato lì, perché ho intercettato con altri materiali, che mi hanno fatto capire che quello che avevo intorno a me non era l’evoluzione, ma la fine di un mondo che fu pasoliniano. E ho cominciato a cercare altro materiale, altre storie.

Per esempio una mia fonte inesauribile è Emanuel Bevilacqua, il coprotagonista dell’Odore della notte. L’avevo conosciuto a suo tempo a piazza Gasparri, a ridosso dell’Idroscalo. Lui è figlio di uno degli interpreti di Accattone, di uno dei “napoletani” di Accattone. Aveva in mano del materiale narrativo dirompente. Solo allora ho deciso di fare il film, che non era solo un aggiornamento – quelli erano gli anni ottanta, questo è il 2000 -, non era semplicemente una nuova fotografia. Era la descrizione della fine di un mondo.

Qualche tempo fa avevo scritto un articolo in cui mettevo a confronto due scene finali, quella di Caro diario e quella di Amore tossico__. Sono un paio di scene cinematografiche che sono girate nello stesso luogo. Moretti che con la Vespa va a omaggiare, con un’invadente colonna sonora di Keith Jarrett, il monumento funebre a Pasolini (”Chissà perché non ero mai andato a vedere il luogo dove Pasolini è stato ammazzato”), mentre i due bucatini di Amore tossico non si accorgono, non sanno nemmeno che quello che si intravede dietro di loro è il monumento a Pasolini. L’omaggio che tu fai al regista di Accattone è totalmente implicito: dalla parte dei miserabili, degli irredenti, dei non riqualificabili. La morte per overdose di Michela per me vale cento piani sequenza con Keith Jarrett sotto.

Questa è un’analisi interessante. Molti hanno fatto finta di non vedere il diverso, se non opposto approccio, rispetto a Moretti. Le cose che vengono scritte su Amore tossico sono sempre le stesse. Spesso apologetiche. Ogni tanto, per qualche anno, non leggo le cose che mi riguardano, e quando ricomincio spesso trovo analisi sempre uguali. Altre volte invece il punto di vista è intrigante o divertente nel mettere in relazione il film con il vissuto di chi scrive, non necessariamente tossico, anzi quasi mai tossico. È anche così che il film è diventato un cult.

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In quella scena di Amore tossico fai un movimento di macchina con cui lo spettatore scopre all’improvviso quel monumento proprio subito dopo che si sono fatti. È un movimento sobrio, quasi innavertito, come se si svegliassero.

Quando decisi di girare lì pensai che i personaggi non dovevano sapere che quello era il monumento a Pasolini. Ma prima che un ragionamento, fu una questione d’istinto.

Una specie di testimone che raccogli da Pasolini.

Quando Accattone arrivò in televisione, Pasolini era ancora vivo. Mi ricordo un suo articolo sul Corriere della Sera, dove fa il discorso sull’omologazione. Qualche mese prima con l’intermediazione di Francesco Leonetti avevo cercato di fare il suo aiuto per il film che doveva girare su San Paolo e che invece risultò essere Salò. Ma lì il set era chiuso. Leonetti disse: farai il suo prossimo film. Che non c’è mai stato.

Cosa ti piaceva in Pasolini?

Io scopro Pasolini con il Vangelo secondo Matteo e Uccellacci e uccellini. Poi recuperai tutto. Andavo molto al cinema, a Arona, dove sono nato, sulla sponda piemontese del lago Maggiore. E vedendo quei film trovai per la prima volta un linguaggio diverso, evidentemente rivoluzionario. Ancora oggi lo penso: Pasolini faceva il cinema in un modo in cui non lo faceva nessuno. C’è una sua poesia dei primi anni sessanta che dice:

Una coltre di primule. Pecore
controluce (metta, metta, Tonino,
il cinquanta, non abbia paura
che la luce sfondi – facciamo
questo carrello contro natura!).

Tonino era il direttore della fotografia, Tonino Delli Colli e quello di Pasolini era un cinema davvero contro natura, contro la natura del cinema imperante.

Ti piaceva sia da un punto di vista formale o ti ritrovavi anche nelle tematiche, nell’ideologia pasoliniana?

In questa cosa degli ultimi che dicevi prima, in quest’interesse per gli irrecuperabili. Io sono del profondo Nord, sono nato vicino alla Svizzera. E quando lessi Ragazzi di vita e Una vita violenta, trovai un mondo. Qui all’Acqua Bullicante fino a poco fa potevi trovare ancora gente che lo aveva conosciuto, che era amica di Citti, di Davoli.

Quando hai capito che volevi fare il regista? I tuoi primi lavori, dei documentari, sono della fine degli anni settanta.

Tardi, alla fine degli anni settanta, avevo quasi trent’anni. A Milano tentai di fare l’aiuto di Marco Ferreri.

Ma non avevi fatto una scuola di cinema?

Le scuole di cinema a Milano erano una presa in giro. Cercavo di lavorare sul set. Cercai Bellocchio, che allora era amico di Silvano Agosti, di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, che avevano scritto la loro prima cosa, Nel più alto dei cieli di Silvano Agosti, un film bunueliano.

E quando hai capito che volevi fare il regista, perché hai raccontato la droga?

Quegli sono gli anni del movimento del ‘77. Erano gli anni delle autoriduzioni nei cinema di prima visione, dell’assalto alla Scala. Io frequentavo i Circoli proletari giovanili. In uno di questi vidi per la prima volta l’eroina di massa. All’interno di questi circoli un gran numero di ragazzi si bucava. C’era gente buttata per terra, mi ricordo, nella stanza una marea di gente fatta. Anni dopo vidi una scena di Spike Lee col crack che me l’ha ricordata.

È in Jungle fever.

Sì. E poi è finito tutto. Con l’assalto alla Scala. Era il periodo della contestazione ai concerti. Per esempio filmo la contestazione a Antonello Venditti, che è rimasto inedito. Monto invece un film underground sui Circoli in parte di finzione che si chiama La parte bassa. Lo proiettarono al Filmstudio. Il primo spettatore si aspettava un porno.

Il 1977 dici che è un anno finale.

Nel maggio del 1977 ero a girare alla manifestazione in cui ammazzarono Giorgiana Masi qui a Roma. Era già un disastro. C’erano gruppi di poliziotti infiltrati tra i manifestanti. C’era Autonomia che voleva controllare il materiale girato. Quello che aveva girato l’attacco a Lama all’università lo massacrarono. Prima avevo fatto anche un film sulla psicanalisi, La follia della rivoluzione, parlato in diverse lingue e passato all’epoca in una sezione marginale del festival di Berlino, ma avevo capito che era finito il tempo del cinema militante. Ci sarebbe stato solo il cinema industriale. Da quel giorno di Giorgiana Masi ad Amore tossico passano quasi cinque anni di tentativi.

Cos’era il disastro, cos’era crollato?

La politica, la possibilità di fare politica alternativa. C’era solo l’eroina. Tieni conto che il 1968 in Italia dura dieci anni, quanto in nessun paese del mondo. In Francia il maggio francese dura due mesi. Rudi Dutschke in Germania pochi anni. Pasolini l’aveva intuito, non ha fatto in tempo a raccontarlo.

Pasolini aveva intuito che la politica sarebbe precipitata nel consumo di droga di massa?

Tu non hai idea di quale immagine i mezzi d’informazione davano del fenomeno della droga. La televisione ne parlava solo in termini di pentitismo. Quando con il sociologo Guido Blumir cominciammo a lavorare al materiale per Amore tossico, il drogato era raccontato come tossico lamentoso, triste, vittima. Io dicevo a Guido: non si capisce perché la gente si droga se fa così schifo. Una notte, proprio qui sotto, gli faccio: giriamo un film comico sull’eroina. Volevo mostrare il lato piacevole, divertente del consumo che era censurato. Per me era fondamentale.

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Quando hai visto Trainspotting che hai pensato?

Mi sono incazzato. Lo sguardo era uguale. Ma era declinato secondo i codici imperanti nel cinema commerciale, spesso secondo i codici pubblicitari. E declinato con quei codici quello sguardo moriva. L’arte prima che contenuto è forma.

A me Amore tossico fa ancora più ridere di Trainspotting. Ci vedo un’influenza incredibile della commedia all’italiana. Che altro dovrei trovarci?

Beh, Scorsese, spero. Dopo la proiezione a Venezia uscì un articolo su Libération e poi ne uscì un altro sui Cahiers du Cinéma, firmato da Serge Toubiana, che scrisse subito: l’incrocio tra Pasolini e Scorsese. Il lato ”comico” e “trucicomico” del film, le scene ”divertenti” pur nella drammaticità della narrazione, non vengono dalla commedia all’italiana, ma dagli stessi fatti raccontati. Sono interni alla storia, non sovrapposti. Poi se vogliamo dire con una battuta che un po’ mi fa incazzare: siamo tutti figli di Monicelli, può anche darsi che in parte sia vero.

Come passi dal materiale che raccogli alla sceneggiatura?

Parti senza sicurezze. Vai sulla strada. Però hai studiato. Noi quando abbiamo cominciato a raccogliere storie sapevamo tutto del fenomeno dell’eroina. Ma facevamo finta di non sapere nulla. Per esempio, a un certo punto cominciammo a discutere dove ambientarlo. Pensavamo a Verona, dove la situazione era gravissima. O a Milano, a Quarto Oggiaro, che conoscevo bene. E poi mi venne in mente un’idea – c’è un’ambientazione che è già nella storia del cinema, le borgate romane nei primi film di Pasolini! – che fu giudicata l’idea migliore.

Ci mettemmo tre mesi. Trovammo un muro. Non avevamo nessun mediatore. Se parlavano con te era una dichiarazione di reato, in pratica. La domanda che facevano più spesso era: “Non è che sei un giornalista?”.

La volta in cui capii che potevamo fare il film erano le tre di notte. Da qualche giorno avevamo già trovato Cesare, il protagonista. Dormivamo a casa di alcuni di loro. Li seguivamo dappertutto, con il rischio che potevamo essere arrestati anche noi da un momento all’altro. Per fortuna quella notte la polizia non si fece viva. Andammo in un bar alle tre di notte, ricordo che pioveva. Roberto Stani (Ciopper) a un certo punto mi fa: “Ieri sera abbiamo fatto una chiusura… Sono entrato… ho tirato fuori il pezzo”. Era una dichiarazione di reato, lì capii che ormai si fidavano. Non ci fu più bisogno di chiedere, i materiali arrivarono spontaneamente.

Come hai lavorato sul linguaggio che si parla in Amore tossico? Credo di aver letto almeno tre, quattro saggi di sociolinguistica sul tuo film.

Quando non ho più sentito usare nuovi vocaboli del gergo tossico malavitoso ho detto: adesso possiamo scrivere i dialoghi. Abbiamo fatto il film con innocenza e incoscienza. Un po’ di naïveté pasoliniana. Anche la scena in cui i ragazzi si picchiano è molto pasoliniana. Ma è vero che poi avevamo una presa sulla realtà, se pensi che per esempio la parola “tossico” è entrata nel vocabolario da lì in poi.

Perché tu non sei diventato un militante duro e puro, oppure un tossico?

Non sono entrato nelle Brigate Rosse. Era così facile contattare Curcio o Franceschini… Credo mi abbia salvato il cinema. La cosa che anche allora pensavo era: fai la guerriglia in un paese col capitalismo avanzato, è chiaro che perdi!

Il film fu un successo.

Quando esce, Amore tossico si prende cinque prime pagine. Repubblica, Corriere, Stampa… Anche perché lo stesso giorno arrestarono la protagonista, Michela Mioni. Un vicequestore, che era nelle liste della P2, fece quest’arresto a orologeria per ottenere la prima pagina grazie alla pubblicità che gli faceva il film.

A rivederlo anche oggi non sembra un datato se lo metto a confronto con tanti dei film d’intervento di quegli anni.

Era un film troppo avanti. Lo riconobbe anche Nanni Moretti. In quegli anni mentre noi stavamo preparando At

Amore tossico: tu lo chiami At?

Sì, perché sono gli stessi anni di Et… In quegli anni lì tutti volevano fare un film sulla droga. Perfino Sanguineti, Moretti lo voleva fare, Giuseppe Bertolucci… Quando i miei attori seppero del progetto di Bertolucci, mi dissero: Claudio, noi andiamo là da lui e gli spezziamo le gambe.

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Non ci sono molti film che capaci di raccontare l’eroina di quegli anni, tutti film che nessuno ricorderebbe: Roma drogata, La via della droga, Orfeo numero cinque, La luna, forse, di Bernardo Bertolucci. Anche se c’è il bellissimo L’imperatore di Roma di Nico D’Alessadria…

C’è Non contate su di noi di Sergio Nuti del 1978. C’è Bambulè di Marco Modugno del 1979. Poi c’è la Musica nelle vene di Pasquale Squitieri. Tutti film passati come acqua. C’è anche un film del 1980 di Massimo Pirri che s’intitola Tunnel-Eroina con Helmut Berger e Corinne Clery. La Clery dichiarò: “Abbiamo provato a fare un film sull’eroina, poi arrivò Amore tossico e fu la fine”.

Perché da un film di successo non è cominciata una carriera fulminante?

Perché l’establishment era contro. Quando esce un film e va bene non possono dire: sei un cretino, non vali niente. Con tutte le critiche, o quasi, positive. Ma quando vai da produttori a cercare i soldi, è lì che ti fermano. Anche De Sica e Rossellini li fermarono così, tagliandogli i finanziamenti.

Nessuno ti disse “hai fatto il botto”, ti affido un progetto più importante?

No, ma per via delle storie che volevo raccontare. Portavo le storie che venivano dal ‘77. Ed era quello che non volevano. Con la mediazione di Marco Ferreri forse avrei potuto fare un film con Mastroianni e Hanna Schygulla, ma non avevo la storia per loro due. Avevo solo storie di gente che viveva fuori dalla società.

E come sono passati quindici anni, da Amore tossico all’Odore della notte?

Così… Perdi due, tre anni su un’idea, non ci riesci a farla, prendi un’altra idea, ci stai due, tre anni, non riesci a realizzare nemmeno questa, e così via, ed è così che passano quindici anni.

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Però Amore tossico è un film che ha avuto un’influenza culturale enorme. Mi ricordo che sarà stato il 2006, lo proiettarono al Forte Prenestino d’estate, venne una marea di gente.

Beh, anche il titolo ha aiutato. Pensa che si doveva chiamare Eroina di strada.

Ti posso dire che hai creato un’estetica? Hai mai visto la puntata di The Pills che s’intitola Amore tossico?

No.

(Gliela faccio vedere e ride)

C’è anche un gruppo musicale rap che ha fatto un video replicando, inquadratura per inquadratura e con attori truccati in modo che ricordassero gli interpreti di At, la scena iniziale della ricerca della droga.

La Rai ha finanziato il tuo ultimo film, ti viene riconosciuta un ruolo importante nella scena cinematografica italiana?

Vuol dire che sono cambiati i tempi o mi sono sbracato io. C’è voluta però tutta l’ostinata determinazione di Valerio Mastandrea perché la cosa andasse a buon fine.

Dopo l’appello di Valerio Mastandrea, sembra che qualcosa si sia mosso per produrre il tuo prossimo film.

Sì, qualcuno si è fatto avanti, produttori che magari un anno fa avevano detto di no. Tu capisci perché?

Ma, direi per desiderio mimetico. Se vedo un amico che esce con una che fino a poco prima aveva fatto la corte a me, improvvisamente riesco a vedere la bellezza che non vedevo prima. Piuttosto non capisco perché hai avuto difficoltà a fare film dopo l’Odore della notte. Se c’è un film seminale in Italia negli ultimi vent’anni è quello. Se penso da Romanzo criminale o a tutte le commedie nere…

Per Romanzo criminale non mi hanno preso come regista. Hanno scelto Placido e poi nella serie Sollima. Con Valerio avevamo provato a opzionare il libro, ma senza successo. Poi lui non lo presero nemmeno come attore. È stata una sconfitta, lì ho capito che avevamo perso per davvero. Se avessimo potuto fare il film sarebbe stata tutta un’altra storia, specialmente per me.

Cosa pensi della serie?

È girata molto bene, per quanto riguarda l’azione. Stefano Sollima è un po’ come suo padre Sergio. Sa fare bene l’azione. Romanzo criminale ha il vantaggio di raccontare una storia a effetto e di basarsi su materiali giudiziari, anche se per fare il passo successivo, quello decisivo, toccherebbe avere una fonte interna, un pentito per esempio (è così in Goodfellas e più modestamente nell’Odore della notte), che ti racconti non solo quello che è penalmente perseguibile, ma tutto il resto, la strada, il modo di vivere. Quando fai un lavoro del genere devi avere più fonti, e soprattutto devi avere una fonte interna. Ti posso mostrare una foto di Franco Giuseppucci, ossia del Negro, e già lì ti rendi conto che era completamente diverso dal personaggio di Romanzo criminale. Poi siamo d’accordo che quella di De Cataldo è una rielaborazione. Figuriamoci, è lecita, ma il suo personaggio è proprio il contrario. De Cataldo lo fa razionale, molto dentro la costruzione della banda e il rischio è che la rielaborazione sia più scolorita della realtà che magari neanche conosci. C’è una foto del Negro che lo ritrae su una macchina sportiva che aveva appena vinto a poker, con cinque donne sul cofano: quello era il Negro, uno che si voleva godere la vita. Per questo, mettiamo, la scena della sua morte nel film per me non ha forza: tra l’altro nella realtà gli spararono a San Cosimato e andò da solo al Regina Margherita, l’ospedale che sta lì vicino.

Tu come l’avresti girata?

Io l’avrei pensata proprio diversamente. Avrei immaginato che Giuseppucci entra al pronto soccorso, ferito, si fa spazio tra la folla in attesa e dice: tocca a me, m’hanno sparato. È una scena certo che ho inventato io, ma su un codice di verità, perché ho conosciuto il cugino del Negro e ho capito che tipo di personalità aveva.

Non sai le volte che ho provato a proporre film di questo tipo. Per due volte ho proposto alla Cattleya Anni rapaci, che alla fine si può definire un film commerciale, anche se diversamente commerciale, e per due volte lo hanno rifiutato. La prima volta eravamo prima di Romanzo criminale. Riccardo Tozzi mi fece intendere che loro non facevano film del genere, su personaggi così negativi. Ma un anno o due dopo fece Romanzo criminale. In realtà credo che non vogliano, tuttii produttori non solo la Cattleya, un approccio autoriale, un segno forte, sia pure commercialmente veicolabile. Gli basta una medietà espressiva.

All’inizio dell’Odore della notte c’è una scena di presentazione dei personaggi che è quasi brechtiana.

Non “quasi”: è brechtiana.

Perfetto. Per me è una scena fantastica perché per essere un film d’azione è straniante, teatrale. Come ti è venuta?

Quando scrivi una sceneggiatura c’è una componente razionale e una istintiva. Lì ho capito che doveva esserci una rottura del continuo. Quindi comincia con un inseguimento già ma ci sono tre scelte narrative diverse. C’è Valerio Mastandrea che parla in oversound, lui in campo e la sua voce fuori campo. C’è a un certo punto un frame con Marco Giallini con un a parte, che dice solo una battuta: “Se rischia”. E poi ci sono ancora Giallini e Tirabassi che praticamente parlano in camera, troncando tutto il naturalismo.

House of Cards vent’anni prima.

Ah ah.

Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Giorgio Tirabassi sono tre attori fantastici. Oggi lo riconoscono tutti. Tu a suo tempo come li hai trovati?

Jean-Pierre Melville diceva: se sbagli il cast hai bruciato il film. Scrivere un film è difficile, bruciarlo è facilissimo. Poi elenca almeno altri quattro, cinque modi diversi di bruciare un film.

Per dire_: Velocità massima_ di Daniele Vicari anche deve qualcosa a l’Odore della notte. Oppure il Matteo Garrone, quello romano, deve qualcosa a Amore tossico. Gli altri registi ti manifestano degli attestati di stima?

È raro che lo facciano direttamente, magari indirettamente sì. A partire da Sorrentino.

Che tipo di storie sono quelle che sono rimaste nel cassetto, o anche nella tua testa?

Tutte storie di questo sottomondo. Per esempio ce n’era una che si chiamava Effetto Elisa, che era la storia di una dark lady che si innamora di un pusher. Il ruolo del pusher aveva accettato di farlo Harvey Keitel. Poi non se n’è fatto niente. Per i produttori italiani il film era politicamente scorretto, troppo “fuori della loro linea editoriale”.

Sai se Tarantino ha mai visto i tuoi film?

Non lo so.

E invece quest’ultimo film che dovresti cominciare a girare tra poco?

È una storia degli anni novanta. Quando finisce quel mondo pasoliniano.

Che vuol dire?

Questo film è la storia di due amici. A un certo punto uno decide di andare a lavorare, ma non è che va meglio dell’altro che continua a barcamenarsi tra legale e illegale. Quando entra quella realtà dello sfruttamento nella borgata, l’omologazione del lavoro è finita. Se pensi a Rocco e i suoi fratelli anche lì il meccanismo è lo stesso, con il fratello che finisce a lavorare all’Alfa di Arese. Ma lì eravamo in un’altra epoca, c’era un’altra speranza. All’inizio degli anni sessanta potevi ancora crederci all’emancipazione attraverso il lavoro. Anche se Accattone comincia con il fratello che dice: “Devo andà a lavorà” e subito uno gli risponde: “Ha bestemmiato”. Oggi un accattone spaccia in discoteca pastiglie e coca, ma poi la mattina può anche darsi che vada a lavorare.

Mi dicevi che ti interessa anche l’amicizia di questi due protagonisti nel tuo nuovo film.

Beh sì, nel film c’è anche un aspetto che è molto Mean streets. Un amico si perde, e l’altro non ce la farà a salvarlo, perché non riesce a salvare nemmeno se stesso.

Come è raccontata questa disillusione che dicevi?

Vittorio, così si chiama il protagonista, sta con Linda che è una ragazza che non a caso si chiama così e che ha un figlio di dieci anni. E lui, Vittorio, è contento quando riesce a trasmettere a questo ragazzino l’orgoglio e l’entusiasmo per il lavoro, l’orgoglio del proprio lavoro, sempre ben fatto, a regola d’arte. Ma poi la stessa Linda lo gela informandolo che sta cercando un secondo lavoro. I soldi non bastano, lui guadagna davvero troppo poco. Anche il figlio si associa alla madre e rafforza il concetto, in fondo lo accusa. Per Vittorio è troppo, una doccia fredda che lo ferisce più del colpo di pistola che ha freddato il suo amico Cesare – il film è sostanzialmente la storia di loro due e delle opposte scelte che fanno.

Come fai a evitare il pericolo del didascalismo, del sociologismo?

Non ho visto Amore tossico per quindici anni. Quando poi l’ho rivisto mi è sembrato che funzionasse ancora. E che funzioni ancora adesso. Allora, quando lo giravo, dicevo che bisognava togliere tutte le cose dirette, attuali, e lavorare in astrazione. Credo sia anche per questo che funziona ancora. Ma ti voglio dire un’altra cosa che per me è ancora più importante: che io lavoro usando codici semantici che a un primo livello sono guardabili e comprensibili da tutti e quindi si può anche dire che sono potenzialmente “commerciali”. Cerco di non tagliare fuori nessuno. Sarà semplicemente per l’ambiente da cui provengo. La mia formazione è quella di uno che da bambino e da preadolescente andava al cinema con suo padre e vedeva i film popolari. Questo discorso in America lo puoi fare più facilmente. Prendi Taxi driver. Che cos’è? Un film criptico o un film potenzialmente, anche se diversamente popolare? Guarda, penso che se sceglievo di fare film di nicchia, poco visibili, forse avrei fatto tanti film. Tanto non disturbi nessuno.

Perché?

Perché quando sai comunicare, sei pericoloso. Questa cosa l’ho sempre pensata.

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