29 marzo 2017 13:41

Immaginatevi un racconto incredibile dove storia e immaginario, memoria e sogno si fondono per raccontare in maniera ipnotica gli Stati Uniti e il capitalismo di fine ottocento e inizio novecento, partendo tra l’altro da una delle più remote regioni del Nordamerica, lo Yukon, in Canada, all’epoca della mitica corsa all’oro.

Una storia di memoria ritrovata e con essa di speranze, sogni e dolori di una marea di esseri umani. È quanto è riuscito a fare Bill Morrison con il suo documentario Dawson City. Il tempo tra i ghiacci, realizzando un’opera storica quanto onirica, presentata con successo all’ultimo festival di Venezia nella sezione Orizzonti e ora arrivata al cinema grazie alla Cineteca di Bologna nell’ambito del progetto Il cinema ritrovato diretto da Gian Luca Farinelli, che solo poco tempo fa ha riproposto l’indimenticabile La morte corre sul fiume. Dawson City, come rivendicato dalla stessa Cineteca di Bologna, sembra l’esempio perfetto del progetto. Quasi il suo paradigma.

Il film di Morrison racconta infatti del ritrovamento fortuito e incredibile a Dawson City di cinquecento film dell’epoca del muto, degli anni venti e trenta, compresi numerosi cinegiornali, rimasti nascosti tra i ghiacci. Film che arrivavano a Dawson City ai tempi della corsa all’oro e destinati a una città, situata in quella parte dello Yukon più vicino all’Alaska e alla confluenza dei fiumi Yukon e Klondike, che a quei tempi viveva la sua massima espansione.

Eccettuata una piccola parte introduttiva sull’oggi, seguita da un breve estratto del 1979, cioè dell’anno dell’inizio del restauro delle opere, il film segue una cronologia in massima parte lineare dal 1846 al 1978, l’anno del ritrovamento sotto a una pista di hockey su ghiaccio, che, a sua volta, era stata in precedenza una piscina di un’associazione locale. È stato l’esercito canadese a trasportare poi le casse con i film per il restauro a Ottawa. Gli archivi di stato del Canada e la Library of congress degli Stati Uniti hanno così potuto restaurare 533 bobine provenienti da Dawson City.

Il trailer di Dawson City

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Il vero boom per Dawson coincise con quello del cinema come intrattenimento di massa, tra il 1895 e il 1898. Perché, come ricorda lo stesso Morrison, “la scoperta dell’oro a Dawson City avvenne lo stesso anno in cui le proiezioni cinematografiche di largo formato stavano prendendo piede ovunque nel mondo”, e la stretta connessione tra la storia del cinema e quella di Dawson City è anche dimostrata dal fatto che “svariate personalità di Hollywood sono partite o sono passate da Dawson City”.

Insomma, corsa all’oro e storia del cinema si sono intrecciate più di quanto si possa immaginare, e in questo senso uno dei capolavori di Chaplin, La febbre dell’oro (1925), sembra certificarlo in forma poetica. Così come pare anche l’anticipazione poetica dello stesso documentario, e il breve estratto del film con Charlot tra i ghiacci del Klondike s’inserisce alla perfezione con il materiale di repertorio. Biancori e neritudini, definizioni un po’ poetiche e assolute ma che sono forse le più appropriate, si alternano infatti dall’inizio alla fine. L’uso magistrale del found footage rende il documentario un’opera di avanguardia, sperimentale e godibilissima al tempo stesso. Del resto Morrison, classe 1965 e originario di Chicago, ha studiato pittura ed è regista noto per le sue sperimentazioni.

Paradigma del capitalismo
Un sentimento struggente si fa strada nell’animo dello spettatore via via che si dipana la storia unica di questa città perduta, com’erano perduti molti film dell’epoca del muto ritrovati a Dawson. In questo poema visivo ripercorriamo la storia del Canada, dall’epoca in cui i territori erano ancora vergini e dominati dagli indigeni al progressivo predominio dei coloni, prima lento e poi sempre più veloce, le morti e le rinascite continue della città a seconda dell’andamento dei filoni d’oro, le truffe legate al più prezioso dei metalli, e poi, di riflesso, le incredibili vicende legate all’avvento dei primi movimenti socialisti e anarchici negli Stati Uniti, la grande guerra, le vicende di grandi famiglie capitaliste, dai Trump, la cui fortuna cominciò proprio in un caffè ristorante con bordello annesso di Dawson, ai Guggenheim, fino alla terribile vicenda dei minatori in sciopero della Colorado fuel & iron company di John David Rockefeller, su cui fece fuoco la guardia nazionale del Colorado, uccidendo anche donne e bambini.

E in questo senso, come nota ancora il regista, Dawson è un microcosmo rappresentativo di un continente, di un’epoca, dell’intero processo capitalistico, poiché Dawson City è anche un film sul capitalismo, della cui storia il cinema è parte integrante, anche se a volte in maniera anarchica, foriero di sogni, e, nei suoi momenti più alti, espressione di mondi interiori.

Dawson City. Il tempo tra i ghiacci. (Outnow)

Un po’ anarchica e senza dubbio molto libera nello spirito, artistica per dirlo con una parola, è la maniera con cui Morrison ha assemblato i materiali di repertorio. E senza dubbio quel che accadde realmente a Dawson fu “costantemente oggetto di arricchimenti romanzeschi o caricature, facendo a volte della città una sorta di spettacolo teatrale con personaggi bigger than life, reali o immaginari che fossero. Dawson è sempre stato un luogo situato tra i sogni e la memoria”.

E dunque la “Dawson City che i cercatori d’oro immaginavano era molto diversa da quella in cui arrivarono nel 1898”. Una città che “era in un certo senso una riproposizione di altre città, con le loro tradizioni, il loro fascino e i loro eccessi”. Le informazioni sono tante, di raro interesse, e spesso sorprendenti, a cominciare dalla storia, che ha segnato il cinema quanto la città, sul predominio della pellicola al nitrato d’argento, pericolosissima perché altamente infiammabile. Ma non vogliamo raccontare troppo, per non rovinare l’incanto della scoperta. Perché qui l’informazione storico-documentaria si trasforma in incanto poetico. Tra l’altro all’estetica digitale dominante e omologante, il documentario, in particolare quello che lavora sulla contaminazione, oppone la pellicola. Come in Bella e perduta, documentario di Pietro Marcello interamente realizzato con pellicola scaduta, la cui instabilità genera imprevedibili effetti alchemici che incidono sulla scrittura stessa del film.

Un nuovo livello di verità
Tutto si annulla in questa no man’s land mentale e fisica che è Dawson City, la città come il film. Tutti i confini diventano meno netti, come si confondono i margini delle pellicole bruciate dal tempo, metafora di tutte quelle pellicole bruciate dai roghi dovuti al nitrato d’argento.

La vita faticosa e dolorosa dei cercatori d’oro, il crudele dissolversi delle loro illusioni, raggiungono un nuovo livello di verità: qui appaiono come ectoplasmi, fantasmi di esseri fatti di carne, sangue e lacrime. Come Pierrot con il loro pallido biancore, disincarnati, riaffiorano da un limbo, da un altro mondo.

La qualità ipnotica di queste immagini in movimento alternate a quelle immobili delle numerosissime e notevoli fotografie dell’epoca, rimanda al cinema nella sua essenza, a quello dei surrealisti che ci vedevano un’arte intrinsecamente ipnotica in contatto con l’inconscio, l’interiorità e la memoria, ma anche a quello dei dadaisti. Oggi la memoria passata del cinema, e in particolare la memoria di questo cinema, quello di fiction come degli estratti di cinegiornali, coincide con quella dell’umanità tutta, rendendo evidente a chiunque la labilità del confine. Perfetto per raccontare una terra e un’epoca, quella della frontiera, i cui confini sembravano inesistenti, infiniti.

Frammenti, ognuno con la sua unicità, che s’incastrano creando un effetto straniante

L’uso delle musiche è concettuale. Il lavoro di Alex Somers, collaboratore della band islandese Sigur Rós, recentemente autore delle colonna sonora del film Captain Fantastic (del resto Morrison ha collaborato con molti sperimentatori come Philip Glass o il Kronos Quartet), contribuisce ad acuire una sensazione di delicata sospensione del tempo, di solitudine.

E l’iterazione non è mai noiosa, anzi aumenta l’effetto ipnotico delle immagini. La maniera in cui i frammenti ritrovati (rigorosamente datati attraverso delle didascalie) sono usati per raccontare una storia, anche quando non sono disponibili filmati e fotografie degli eventi, ha qualcosa della sovversione ludica del dadaismo. Del resto la pratica stessa del found footage ha una contiguità con il dadaismo e forse ancor più con il surrealismo.

I frammenti, ognuno con la sua unicità, s’incastrano creando un effetto straniante: temporalità diverse si uniscono nel racconto di Dawson City, prisma o specchio deformato del macro-mondo. Fantasmi che appartengono a luoghi differenti, a universi paralleli, se da una parte restano intrappolati nel ghiaccio della temporalità del singolo frammento, s’incrociano e dialogano tra loro per un breve istante, in maniera vecchia e nuova insieme. La frenesia del montaggio delle immagini in movimento crea anche un rapporto dialettico con la fissità delle fotografie.

Il film ha un tono delicatamente intimo e crea un sentimento epico verso un mondo perduto, reale e immaginario che sia. Chissà cosa ne avrebbe pensato John Berger? Sicuramente Dawson City è un film da non perdere che può interessare tutti, non solo gli studiosi della storia, del costume e del cinema degli Stati Uniti.

Il documentario da un lato, con i suoi dati e le sue informazioni, dall’altro il sogno, con il reale che si fa trasfigurazione. Il tempo, soprattutto se è nei ghiacci, rende il cinema, come la fotografia, trasfigurazione poetica e onirica. Ma nell’immagine fotografica in movimento, nel cinema, questo è forse ancor più vero.

Dawson City. Il tempo tra i ghiacci è insomma il luogo, piccolo e grande, dove le due anime del cinema da sempre conflittuali, la scientificità dei Lumière e l’illusionismo dada di Meliès, si annullano e si raggiungono per definizione. Bill Morrison ha saputo sfruttare in chiave umanistica la miniera d’oro di celluloide rivenuta nel 1978. Questo il suo ulteriore exploit, del tutto degno della memoria dei tanti ignoti che partirono alla volta dello Yukon per cercare un miraggio dorato.

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