03 novembre 2015 16:40

Sempre più a corto di elettori e di lettori, politica istituzionale e media mainstream somigliano ormai a un mediocre fashion blog a caccia di modelli: figurini che cambiano col vento della moda. Per un paio di decenni, a sostegno della smania di riforma costituzionale, in passerella sfilavano di continuo i modelli istituzionali tedesco, francese, americano, perfino israeliano (pareva il più antidemocratico, ma l’abbiamo superato con la recente riforma Boschi). Adesso, di fronte allo sfascio delle istituzioni locali, sfilano i modelli amministrativi. A Roma la vicenda Marino spalanca il sipario sullo stato terminale della politica? Nessun problema, basta fare un fischio al Modello Milano. Il quale sbarca a Fiumicino nella persona del commissario Tronca, si infila la fascia tricolore, va a farsi benedire dal papa et voilà, il gioco è fatto. Annaffiata da una pioggia di quei fondi per il giubileo che all’amministrazione Marino arrivavano sì e no a goccia, per le sfilate di primavera Roma sarà pronta con un nuovo look: decoro urbano, buche rattoppate, prevedibilmente – dati i trascorsi di Tronca – qualche sgombero, il giubileo sfangato in qualche modo. E un bel modello nuovo di zecca da infilare nelle urne: prefettizio, decisionista, efficiente, a-partitico. Il coniglio nel cappello di un Pd(R) altrimenti perduto.

Sono stata a Milano per qualche giorno poche settimane fa. Non ci capitavo dal 2010, ultimi mesi del ventennio berlusconiano, e ho percepito subito un cambiamento etico-estetico evidente: il centro storico pedonalizzato e tirato a lucido (ma pare che la situazione delle periferie sia parecchio diversa), i soldi che riprendono a girare, la metro che ti porta ovunque in pochi minuti, l’estetica tacchi a spillo della Milano da bere sostituita da una coolness discreta, le persone che ti sorridono invece di ringhiare come fanno quasi sempre a Roma. Ma nessuno, a Milano, attribuisce questo cambiamento all’Expo, o solo all’Expo, o in primis all’Expo. L’Expo, dicono, ha dato sicuramente una mano, e molti soldi, a rilanciare lo spirito mercantile di Milano. Ma prima dell’Expo c’è stata l’amministrazione Pisapia, e il risveglio sociale che l’ha resa possibile prendendo in mano i destini della città nella campagna elettorale della primavera 2011. Un risveglio siglato da quell’arcobaleno che spuntò dopo la pioggia nella manifestazione in Piazza del Duomo la sera prima del voto, simbolo e annuncio del cambio di stagione.

Rimuovere quell’arcobaleno dal quadro del “modello Milano”, e oscurarlo con l’Expo e i Tronca, ha il senso evidente di cancellare l’opera della politica, di una buona politica, nel cambiamento di una comunità, e l’obiettivo altrettanto evidente di esportare questa cancellazione a Roma, chiudendo (o coprendo) il tempo della cattiva politica con il tempo dei commissari e dei podestà. La cancellazione, si badi, non riguarda solo l’arcobaleno milanese.

La primavera del 2011 – che si aprì con l’immensa manifestazione femminile contro il regime sessuale berlusconiano e si concluse con i referendum sull’acqua – è il grande rimosso delle narrazioni politico-giornalistiche degli ultimi anni. Fu anche contro quella primavera che dall’alto del Quirinale si consentì, nell’autunno successivo, che Berlusconi venisse archiviato sostituendolo con il governo Monti, senza passaggio elettorale; mossa ripetuta, nel febbraio 2014, nella sostituzione, sempre dall’alto e senza passaggio elettorale, di Letta con Renzi.

Il quale Renzi, com’è noto, nella sua tanto osannata capacità comunicativa usa fin dall’inizio due diversi e opposti registri retorici: il registro del decisionismo politico quando si tratta di glorificare se stesso, e il registro dell’antipolitica anticastale quando si tratta di rottamare gli altri. Un registro, quest’ultimo, tutt’altro che estraneo al rottamato Ignazio Marino, che com’è stato più volte ricordato fu candidato a sindaco, e vinse, sulla base di uno slogan anch’esso antipolitico (“Non è politica, è Roma”) che aveva il duplice scopo di occultare la sua appartenenza alla tanto odiata casta dei parlamentari e di assorbire almeno in parte la spinta antisistema dei Cinque stelle. Come ha scritto Giovanni Orsina sul Corriere della Sera qualche giorno fa, da questo punto di vista i duellanti Renzi e Marino purtroppo si assomigliano. E la conclusione della vicenda Marino per mano di Renzi, aggiungo io, va nella stessa direzione antipolitica: fine della sindacatura tramite atto notarile senza dibattito in consiglio comunale, delegittimazione di ciò che resta dei partiti e segnatamente del Pd renziano e del suo modo di condurre la partita, consegna della città nelle mani di un prefetto anzi due, Tronca e Gabrielli. E probabilmente, nei prossimi mesi, sperimentazione sul campo della definitiva destrutturazione del campo politico: non più destra contro sinistra, ma basso contro alto (se va bene) o prefetti e dream team contro politici e partiti (se va male).

Dunque ora non si tratta affatto, per come la vedo io, di “liberare Roma dalla politica”, come ha scritto su Internazionale il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi, secondo il quale la capitale soffre da sempre di una dipendenza dalla politica che soffoca quelle energie creative e dinamiche della società civile che Milano invece sprigiona. Mi chiedo e gli chiedo: dipendenza dalla politica, o dal potere di governo e di sottogoverno? Potere e politica non sono la stessa cosa; e sempre per come la vedo io, e se per politica non intendiamo i comitati d’affari di sottogoverno ma la cura comune della cosa pubblica, Roma non soffre oggi di un eccesso ma di un deficit di politica. Non ha bisogno di un dream team di tecnici prefettizi, ma di un sogno collettivo che rimetta in circolo competenze, desideri, idee, progetti tanto diffusi quanto dispersi nel tessuto slabbrato della capitale (sette volte più grande e due volte più popoloso, vale la pena ricordarlo, di quello milanese). Non merita di essere inchiodata al suo, pur incancrenito, disincanto e cinismo, ma di essere ascoltata nella sua comprensibile stanchezza: la stanchezza di essere la quinta barocca di una politica decadente, la stanchezza di essere una città globale perennemente mancata, la stanchezza di una vita quotidiana sempre più ardua fra mobilità impossibile, disfunzioni di ogni genere, piccole e grandi speculazioni ovunque in agguato, malumore e senso di impotenza diffusi. La stanchezza, infine, di una domanda democratica impossibilitata a esprimersi se non con l’astensione (Marino dovrebbe ricordare che fu eletto sì con più del 60 per cento dei voti, ma del 50 per cento del corpo elettorale).

Non sarà un prefetto a scuotere Roma da questa stanchezza. Né un giubileo trattato alla stregua di un “grande evento” commerciale e turistico qualsiasi (il papa non dovrebbe rivendicarne la spiritualità, invece di occuparsi tanto della sua gestione?). Né le improbabili pagelle morali stilate maldestramente, e impropriamente, da Raffaele Cantone. Né la gran giostra elettorale dei candidati a sindaco prossimi venturi, con relativo corredo di talk-show. Perché l’arcobaleno di Milano torni a spuntare su Roma, bisogna in primo luogo girare la macchina da presa. Puntarla non sui candidati, ma sulla parte migliore della cittadinanza. Non sulle liste, ma sulle pratiche che giorno per giorno disegnano una città di gran lunga migliore della sua descrizione mainstream: accogliente con i cittadini e con i migranti, pensante, creativa, pulita, visionaria. Vorrei vederle riunite in un “Occupy Roma” che ridisegni le piazze come luoghi pubblici, interponga i corpi e le vite fra il malaffare e la cattiva politica, rimetta in circolo desideri e idee, curi la depressione con l’immaginazione e la sciatteria con la cura. Non per esprimere un candidato ma per reinventare la città, e la politica. Roma l’ha già fatto una volta, ai tempi di Renato Nicolini e dell’estate romana. È poco? Sarebbe moltissimo, ai prefetti non piacerebbe, nessun candidato potrebbe prescinderne e la campagna elettorale ne verrebbe di sicuro civilizzata.

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