25 aprile 2015 09:56
I partigiani in corso Ticinese, a Milano, il 25 aprile 1945. (Mondadori Portfolio)

Per Nuto Revelli c’è una data precisa: “Era il 20 gennaio del 1943. Ci trovavamo in Russia, nella piana di Postojali. Le tre del pomeriggio, trenta gradi sottozero. Una colonna di trentamila fra italiani, tedeschi e ungheresi era ferma, accerchiata da ogni lato. Un aereo russo ci mitraglia. Non possiamo difenderci. Se esco da questo inferno, promisi a me stesso, dico addio all’esercito, rompo con il fascismo, mi adopero perché tutto cambi”.

Per altri la marcia attraverso il fascismo fu più lunga e accidentata, fatta di prese di coscienza faticose, di letture eretiche, di incontri cercati o casuali, dentro e fuori gli spazi del regime. Così singole persone, piccoli gruppi e poi una parte rilevante del popolo italiano si è liberata dal fascismo, così è nata la resistenza. Così ha resistito alla durezza dell’inverno e alla ferocia del tempo di guerra. Così ha vinto.

Ma allora la prima cosa che andrebbe festeggiata settant’anni dopo è la capacità che individui spesso isolati hanno avuto di liberare anzitutto se stessi, di sottrarsi all’inquinamento delle menti e dei valori, di negare finalmente la rete di menzogne e seduzioni che sorregge ogni regime. Di ribellarsi, diremmo noi oggi, al Pensiero Unico. Qualche tempo fa ho sentito ricordare da un operaio protagonista degli scioperi che anticiparono la caduta del fascismo una verità semplice e fondamentale: “Mica eravamo stati a scuola di antifascismo, noi”.

Già, come si diventa oppositori, dissidenti, antifascisti crescendo dentro una bolla completamente invasa dalla propaganda? Quando la realtà viene per decenni falsificata e l’immaginario ha i tratti insieme rassicuranti e grandiosi di un’età colma di futuro? Come si diserta questo immaginario e ci si riappropria della realtà? Come nasce il coraggio di scegliere e di affrontare le conseguenze – piccole e grandi, quotidiane o tragiche – di questa libertà?

Le biografie dei resistenti sono molto diverse perché diverse furono le strade che ciascuno trovò per questa emancipazione. E non si possono trascurare le reti familiari e politiche che resistettero al ventennio. Ma la loro influenza era stata talmente limitata che la resistenza va ricordata in un altro modo, a partire dall’affrancamento dal conformismo che appariva senza alternative, dall’obbedienza che sembrava esigere pochissimo, dall’indifferenza che lasciava vivere, dalla viltà conveniente, dal torpore che confortava.

La possibile contemporaneità della resistenza
Se parlare di attualità della resistenza può suonare ormai retorico, pensiamo a qualcosa di più, alla sua possibile contemporaneità. E a questa prima, fondamentale lezione. Ogni cambiamento, ogni lotta che resista alla sopraffazione e alla violenza, che restauri e allarghi diritti e libertà non può che cominciare da qui, da qualcosa di personale: occhi che si aprono, menti che si schiudono, che rifiutano le idee dominanti e ne cercano di nuove, dovunque è possibile. Nell’altrove che ogni potere cerca di negare ma anche negli angoli che nessun potere riesce a controllare.

È commovente ma ancora oggi istruttivo ascoltare come giovani cresciuti sotto il fascismo, formati nelle sue scuole, inquadrati nelle sue onnipresenti organizzazioni, eccitati dai suoi princìpi, privi di ogni accesso a idee e valori diversi, abbiano costruito in questo modo la loro strada. In tempi – inutile forse ricordarlo – in cui tutto era enormemente più limitato e faticoso, a partire dalla circolazione e dalla comunicazione delle idee: esattamente ciò che i regimi totalitari volevano (e vogliono) rendere impossibile.

È – tra l’altro – per onorare questo processo di autoliberazione, di ricostruzione della propria umanità, che tanto è costato ai nostri fratelli di allora, che mi sembra insopportabile la conservazione di vestigia apertamente fasciste. Non sto parlando dei segni dei tempi che nessuno dovrebbe mai cancellare. Ma dei resti di quella esibizione velenosa di prepotenza, di cancellazione del libero pensiero perfino dall’orizzonte visibile delle strade e le piazze della vita quotidiana, che non erano un accessorio estetico della propaganda, ma un elemento fondamentale di asservimento.

Pensare quanto deve essere stato difficile – e però assolutamente necessario – alzare gli occhi verso un obelisco magnificamente candido e sottrarsi alla sua imponente influenza ne rende oggi impossibile la convivenza con gli spazi e la vita di una società democratica. Dopodiché noi romani siamo sopravvissuti per settant’anni al “monumento” del Foro Italico. Ma un po’ meno liberi, un po’ meno coscienti, un po’ meno riconoscenti verso chi allora si liberò e ci liberò.

Perché ogni propaganda inquina, più o meno profondamente. E rende più difficile quel cammino di indipendenza personale da cui (questa è la prima lezione della nostra resistenza) nasce ogni libertà.

Ma la nostra liberazione non è il frutto di scelte individuali. Nella catastrofe di una guerra e di un regime che pareva invincibile, ragazzi, ragazze, persone di ogni età che stanno cercando di diventare uomini nuovi incontrano gli altri. Simili, dissimili, ma prossimi.

Come rinasce un popolo asservito
Il secondo valore fondamentale è la solidarietà. Qualcosa che spinge ad agire insieme ma anche – su scala diversa – ad aiutare chi agisce, o almeno a tacere e rischiare per proteggere qualcosa cui improvvisamente si attribuisce importanza. Un popolo asservito rinasce anche così: non solo combattendo apertamente, ma anche difendendo o rispettando chi combatte, compiendo qualcosa che allora deve essere sembrato non solo proibito ma inaudito.

Senza queste diverse collettività la liberazione personale viene sgominata dalla propria insensatezza, prima che dal tradimento altrui (e molti tradirono, naturalmente: il velo pietoso che si è steso sulla vergogna del collaborazionismo avrà pure avuto una ragione di realismo politico ma non può essere rimosso, quando si pensa alle diverse moralità dell’Italia di allora e di oggi). Le ragioni diverse con cui si aderì alla resistenza o in modi vari e diversissimi la si favorì non sono un suo limite, nonostante le strumentalizzazioni politiche che da sempre e con diverse intenzioni cercano di separare, di distinguere e perciò di discriminare.

La disomogeneità della resistenza è una sua virtù e, se si può a questo punto osare una parola equivocabile, il più nitido segno della sua modernità. A un movimento di popolo non aderisce una comunità compatta: settant’anni fa – e tanto più oggi – quando collassa un sistema organico di valori va in frammenti il conformismo dei modi di pensare, di giudicare e di vivere. L’azione collettiva non può negare queste diversità e anzi, solo raccogliendole e rispettandole può generare quella più larga solidarietà di cui ha bisogno.

Le pagine più oscure della nostra resistenza sono quelle in cui negò il suo necessario pluralismo e cioè il valore delle diverse motivazioni che spingevano cittadini di condizioni e idee diverse alla partecipazione. Un movimento di opposizione ha invece bisogno di tutti i frammenti sociali e ideali che la crisi e la decomposizione di un antico ordine genera. Una fraternità tra diversi è quella che si creò nei mesi della resistenza e rese possibile la costituzione, la repubblica, i fondamenti della nostra democrazia. Generò anche la crisi dell’Italia della resistenza, naturalmente, perché le differenze sono destinate e riemergere e divaricarsi. Ma intanto lasciano qualcosa di solido, hanno reso possibile qualcosa di impensabile.

Non è un’identità vincente a produrre questi esiti, ma la solidarietà, la capacità magnetica che a volte nella storia hanno le idee nuove di attirare e mobilitare chi era complice o rassegnato, quando le legittimi l’impegno personale fino al sacrificio.
Per questo ogni anno festeggio la resistenza e quest’anno con ancora maggiore convinzione. Non solo per l’orgoglio colmo di meraviglia che questa epopea di liberazione sia venuta alla luce in Italia per opera di italiani. Ma perché il coraggio delle scelte individuali davanti all’apparente invincibilità delle idee dominanti e l’attenzione a ogni occasione di comunicazione e di condivisione che rompa l’assuefazione e crei solidarietà mi sembrano i contenuti fondamentali di una lezione che dalla resistenza arriva fin nel cuore della nostra contemporaneità.

E sono la ragione non retorica e per nulla scontata, superata o inattuale di un sentimento di gratitudine e di riconoscenza che in queste giornate non possiamo smettere di manifestare.

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