28 marzo 2017 11:20

Che cosa fa diventare cattive le persone buone? Tendiamo a pensare che la strada verso la depravazione e la corruzione sia una china pericolosa: bastano pochi comportamenti immorali e le cose precipitano, e prima di accorgercene finiamo travolti dalle cateratte (per essere più precisi, la china pericolosa è vicino a una centrale idroelettrica, e quindi si spiegano le cateratte. Senza contare che sta anche diluviando).

Ma secondo un recente studio olandese, una metafora più appropriata potrebbe essere quella della caduta da un precipizio. I ricercatori avevano chiesto ai partecipanti allo studio di immaginare di essere protagonisti di una trattativa commerciale e li hanno messi davanti a varie possibilità di corrompere un pubblico ufficiale: gradualmente, con tanti piccoli incentivi; con una grossa tangente; o senza offrire niente.

Per fare una sintesi, è risultato che era molto più probabile che le persone si lasciassero corrompere se si trovavano davanti a un’unica “grande occasione” che non a una serie progressiva di compromessi morali. Non scivolavano lentamente nella disonestà. Ci si buttavano a capofitto.

Che senso ha la personalità
I ricercatori hanno dedotto, e mi sembra sensato, che è meno doloroso razionalizzare l’immoralità in una sola volta invece che in più volte. Preferiamo affrontare il processo interiore di autogiustificazione un’unica volta, anche se l’infrazione è più grave, che non essere costretti a farlo un giorno dopo l’altro guardandoci nello specchio del bagno.

Come è stato dimostrato più volte, dalle tragedie di Shakespeare a Breaking bad, vedere qualcuno con un certo tipo di personalità che ne assume una completamente diversa ci affascina in modo particolare. Dal che si deduce che di solito la nostra personalità è fondamentalmente stabile. E se invece da questo punto di vista non avesse senso dire che abbiamo una personalità?

Questo dubbio è alla base del dibattito persona-situazione, ed esprime il timore che forse non esistono tratti della personalità che permangono nel tempo e ci identificano; e che data una certa situazione, giusta o sbagliata, ognuno di noi può diventare chiunque.

Nelle piccole cose, lo vediamo continuamente. La caffetteria all’angolo ha chiuso o l’abbonamento in palestra è scaduto, e due mesi dopo ci accorgiamo che non abbiamo più comprato il caffè o non abbiamo più fatto ginnastica: la situazione è cambiata e ci siamo adattati.

Quello che chiamiamo ‘io’ forse è solo un insieme di processi, non molto diversi da tutti gli altri che costituiscono l’universo

Poi ci sono casi più allarmanti dal punto di vista psicologico, come quelli emersi dall’esperimento nel carcere di Stanford o da quello di Stanley Milgram che ordinava a chi partecipava al suo studio di inviare scariche elettriche apparentemente fatali a soggetti che erano in un’altra stanza. Secondo qualcuno questi esperimenti provano che, sotto sotto, siamo tutti fondamentalmente malvagi; ma potrebbero anche dimostrare che nessuno di noi ha una personalità ben definita.

Se seguiamo questo ragionamento, arriviamo alla conclusione già proposta dal filosofo David Hume e che si può far risalire al Budda: quello che chiamiamo “io” forse è solo un insieme di processi, non molto diversi da tutti gli altri processi che costituiscono l’universo. Questo non significa che nessuno di noi possiede dei tratti identificabili (un insieme di processi può anche essere un processo prevedibile).

Ma ci ricorda che molti dibattiti, su vari temi che vanno dalla politica di genere a come un paese diventa fascista, danno ancora per scontato che ciascuno di noi possieda una sua essenza, sulla quale le circostante influiscono solo relativamente. Ma forse non è così. Forse quella china pericolosa è costruita sulla sabbia.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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