10 aprile 2015 15:47

Comuni più tranquilli, regioni preoccupate, province in allarme… Mentre gli attori italiani si agitano attorno al rito del def – il documento di economia e finanza che traccia gli obiettivi della finanza pubblica per i prossimi tre anni –, dalla lettura del documento, tabella dopo tabella, emerge il volto del protagonista.

Che non vive a Roma, nei centri del potere che dovranno trovare dieci miliardi di risparmi della spesa pubblica nell’edizione Gutgeld della spending review (la quarta, dopo quelle di Enrico Bondi, Mario Canzio e Carlo Cottarelli); né nelle periferie italiane, tra quelle amministrazioni che dovranno spartirsi i nuovi consistenti tagli e i nuovi investimenti, più o meno legati a eventi grandi e piccoli; ma a Francoforte, nella sede della Banca centrale europea.

È al fattore D, inteso come Mario Draghi, che si devono le due voci del def più sicure e rosee: la riduzione della spesa per interessi sul debito pubblico, che da sola vale, e solo per il 2015, 6,4 miliardi; e la ripresa, ancora piccola ma evidente, delle esportazioni, legata alla svalutazione dell’euro.

A questo si aggiunge l’effetto di un piccolo deficit spending, nell’ambito della poca flessibilità concessa dall’Unione europea nei rapporti tra deficit e pil: 6,5 miliardi in tre anni.

Ne viene fuori un piccolo gruzzolo, un tesoretto secondo l’espressione che da qualche anno è in voga quando si parla di finanza pubblica: grazie al quale Renzi può vantarsi di presentare una manovra “senza tasse e senza tagli”. Slogan efficace, ma pericoloso, se genera in chi ascolta una domanda conseguente: ma a che serve, una manovra senza tasse e senza tagli? Che la fate a fare?

In realtà il def non è una manovra, ma una cornice. Dice cosa il governo prevede che succederà, e cosa vuol far succedere. Alle politiche vere e proprie, che daranno i dettagli del quadro, provvederanno poi leggi specifiche, in particolare quella di stabilità.

Per quel che se ne sa ora, la cornice di questo def dice alcune cose. Che la ripresa economica ci sarà, deboluccia (più 0,7 per cento quest’anno, 1,4 nel 2016 e 1,5 nel 2017). Che il rapporto tra deficit e pil scenderà ma non troppo (2,6 per cento quest’anno, 1,8 nel 2016, 0,8 nel 2017). Che il rapporto tra debito pubblico e pil passerà dal picco di quest’anno (132,5) a 127,4 nel 2017. Che le tasse resteranno sul 43 per cento del pil (anzi, con un piccolo aumento della pressione fiscale nel 2016, al 44,1).

Non è un quadro esaltante. Ma, in confronto con quello di due anni fa, è una festa. In particolare per i risparmi provenienti dalla riduzione della spesa per interessi e per l’allentamento del “percorso di miglioramento del saldo strutturale”, cioè l’allontanamento del totem del pareggio di bilancio. Questo non vuol dire che siamo fuori dall’austerità e dalla sua morsa sull’Europa, ma che stiamo usando tutti i margini di manovra consentiti. Per farne cosa?

I 6,4 miliardi risparmiati sugli interessi andranno tutti a scongiurare lo scatto della clausola di salvaguardia nel 2016: ossia l’aumento automatico dell’iva e delle accise sul carburante. Non basteranno, perché quello scatto valeva un punto di pil. La differenza verrà dalla spending review adesso guidata da Yoram Gutgeld: dieci miliardi di euro nel 2015, ossia lo 0,6 per cento del pil.

Dunque, si può dire che il tesoretto di Draghi non sarà usato per fare una manovra espansiva sull’economia, ma per evitarne una restrittiva come l’aumento delle imposte sui consumi; allo stesso tempo, però, se i tagli della spending review saranno veri e non resteranno sulle carte (pubblicate qui) come quelli di Cottarelli, si può presumere che avranno un impatto restrittivo, recessivo, più o meno forte: poco si può dire, finché non si vede la direzione che prende la nuova “revisione di spesa” – se non il fatto che il tentativo di ridurre le spese colpendo solo quelle improduttive, clientelari, sprecone, va avanti dal 2012 e ancora non ha portato in cassa niente.

Chissà che le inchieste in corso non aiutino, in proposito: e la riduzione delle mega opere pubbliche promessa dal neoministro Delrio qualcosa fa sperare. Ma è difficile illudersi sul fatto che un taglio di quella portata possa non colpire spese vive, di altissimo impatto sociale, come la sanità e i trasporti pubblici. Non a caso la temporanea pace con i comuni è accompagnata da una certa fibrillazione delle regioni, responsabili di questi comparti.

Ma c’è un altro asse portante del def, e anche questo è oltrefrontiera. “Il contributo decisivo all’accelerazione del ciclo economico verrà dalla domanda estera”, vi si legge. La svalutazione del cambio, la piccola ripresa dell’economia in altri paesi, e la riduzione del prezzo del petrolio fanno prevedere un surplus delle partite corrente pari al 3 per cento del pil.

Può essere chiamato un effetto-stellone: il governo in carica può godere di una congiuntura economica favorevole dall’estero, e cerca di approfittarne. Ma è anche un modello preciso che si disegna: una crescita trainata dalle esportazioni, nella quale la domanda interna (leggi: i consumi e gli investimenti qui da noi) ha un ruolo limitato, minore. Un modellino tedesco, in scala, applicato in Italia: reggerà?

Correzione 10 aprile 2015
Nella versione precedente di questo articolo c’era scritto che le carte di Carlo Cottarelli sono secretate, mentre non lo sono più e ora sono disponibili qui.

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