07 maggio 2015 13:18

Le previsioni economiche di primavera della Commissione europea per l’economia italiana sono state accolte da sospiri di sollievo e speranza: è tornato il segno più, siamo usciti dalla crisi. Certo, c’è qualche preoccupazione per i conti pubblici (aggravata dalla sentenza della corte costituzionale sulle pensioni) e c’è molta cautela sulla tenuta di questo trend; nel complesso però prevale l’idea che il peggio sia passato. Ma com’è fatto, il “meglio” che deve venire?

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Nonostante le ripetute denunce sulla insufficienza del prodotto interno lordo come indicatore di salute dell’economia e benessere sociale, è sempre lì che tutti andiamo a guardare: per quest’anno si torna in positivo, confermano le cifre Ue, l’anno prossimo le cose andranno meglio con una crescita dell’1,4 per cento. Che è molto minore di quella media dei paesi dell’Unione (1,8 per cento nel 2015, 2,1 per cento nel 2016), però è sempre meglio del segno “meno” del 2014.

Colpisce, tuttavia, un fatto: mentre la produzione cresce, anche se di poco, il tasso di disoccupazione resta altissimo. Si passerà quest’anno, prevede l’Ue, al 12,4 per cento (ma a marzo siamo al 13 per cento, dice l’Istat ), e così resteremo anche l’anno prossimo. 
La previsione è preoccupante, sebbene tutti i timori finora si siano concentrati su altre tabelle, in particolare, quelle relative alla tenuta dei conti pubblici. A cosa si deve una ripresa senza occupazione? E soprattutto, a cosa ci serve? Alla prima domanda risponde lo stesso rapporto Ue. Che fa una premessa valida per tutti i paesi, e a maggior ragione per l’Italia: stiamo vivendo un’eccezionale combinazione di fattori congiunturali favorevoli, ma c’è il rischio di una “crescita anemica”, non strutturalmente e robustamente sostenuta.

Prezzo del petrolio basso, svalutazione dell’euro e grande liquidità della Banca centrale europea: ecco i tre fattori che potrebbero fare di questa fase una cornucopia per le imprese e per la ripresa economica. Invece, si parla di “anemia”: perché l’eredità della crisi, dice l’Ue, è molto pesante. E perché c’è, per tutta l’Europa, il problema degli investimenti privati e pubblici, che la politica monetaria della Bce fatica a risvegliare. Nello specifico poi, per l’Italia, c’è un altro fattore che spiega perché la disoccupazione non schioda nonostante l’esangue ripresa: cominciano a tornare sul mercato del lavoro gli “scoraggiati”, ossia coloro che avevano rinunciato a cercare lavoro. Questi, per miracolo statistico, stanno a casa ma non sono ufficialmente disoccupati. Dunque, con il riaprirsi delle prospettive torneranno a cercare lavoro, arricchendo l’esercito dei disoccupati. Meglio allora, per capire davvero la tendenza, guardare al tasso di occupazione, che è previsto in leggerissima ripresa: dello 0,6 per cento quest’anno, e dello 0,8 per cento il prossimo. Dunque qualcosa si muoverà, ma sarà troppo poco; i posti di lavoro creati dalla “ripresa anemica” sono una goccia nel mare dei senza lavoro, ufficiali o meno.

Il traino delle esportazioni
E questo, nonostante il fatto che, dopo anni e anni di calo, gli investimenti sono previsti finalmente in ripresa nel 2016. Veniamo da anni tragici: gli investimenti in Italia sono scesi quasi del 2 per cento nel 2011, poi crollati del 9,3 per cento nel 2012, e hanno continuato a scendere del 5,8 per cento nel 2013, e del 3,3 per cento lo scorso anno. La ripresa che arriva, dicono le previsioni Ue e lo stesso documento di economia e finanza del governo, sarà trainata dalla domanda estera: dalle esportazioni. Le imprese italiane che stanno guidando la riscossa dell’export sono caratterizzate da una dimensione media, una grande specializzazione tecnologica, e dunque una bassa quota di forza lavoro. Insomma, investiranno in macchine non in operai. E lo faranno – altro particolare non trascurabile – soprattutto in alcune zone d’Italia, tra il nord e il centro.

Come immettere sangue in una ripresa che ne ha poco? E come indirizzarla (anche) verso investimenti ad alta intensità di lavoro? Il già citato rapporto Ue sollecita queste domande, anche se – di suo – dà le tradizionali ricette: tenere in ordine i conti pubblici, rafforzare le riforme strutturali, far funzionare i mercati. Servirebbero risposte un po’ più originali, per evitare di far fuggire le poche rondini di questa fortunata primavera.

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