07 giugno 2018 09:57

Per molto tempo è stato onnipresente, con il volto inquadrato dai suoi impeccabili capelli, tinti di colore nero pece, sulle prime pagine di tutti i mezzi d’informazione. La tv di stato mostrava la folla che scandiva a gran voce il suo nome. Quando osavamo parlare di politica in un caffè del centro città, lo facevamo sussurrando per non attirare le attenzioni degli informatori. Chi voleva lavorare liberamente come giornalista, doveva andarsene all’estero.

Quei giorni sembrano molto lontani oggi, sette anni dopo che Zine el Abidine Ben Ali è stato rovesciato dalla rivolta popolare e pacifica che, dalla Tunisia, ha dato avvio alla primavera araba. Sette anni! Difficile credere che sia passato così tanto tempo.

Il 14 gennaio 2018, come ogni anno dal 2011, mi sono ritrovata a passeggiare insieme a centinaia di tunisini sul viale Bourguiba per ricordare il giorno in cui Ben Ali è stato rovesciato dopo 23 anni di regime del pugno di ferro.

Come ogni anno, l’atmosfera è stata un misto di festeggiamenti e proteste. Come ogni anno, questa scena mi ha riportato indietro nel tempo. I sette anni passati contengono momenti di grazia, di speranza, di atrocità e di disperazione. In alcuni casi sogni e progetti sono diventati realtà, in altri sono stati stroncati. Ma sono grata alla rivolta tunisina per aver dato il via a tutto questo, per aver trasformato il paese e per avermi permesso di tornare e di poter esercitare il mio lavoro senza paura, in libertà.

L’ex presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali vicino a Tunisi, il 7 novembre 2008. (Fethi Belaid, Afp)

La rivoluzione tunisina era cominciata nel dicembre del 2010, scatenata dall’autoimmolazione di un venditore di verdure, ridotto sul lastrico dopo che la polizia aveva confiscato il suo carretto e la sua merce, nella piccola città di Sidi Bouzid, circa 250 chilometri a sud di Tunisi.

Il suo suicido diede il via a proteste di massa, alimentate dallo scontento nato da anni di disoccupazione, inflazione, corruzione e mancanza di libertà politiche. A gennaio Ben Ali fu costretto a fuggire, diventando il primo dittatore caduto in quelle che poi sarebbero passate alla storia come le rivolte della primavera araba.

Mentre migliaia di miei compatrioti stavano manifestando in Tunisia, io ero per lavoro in Sudan, impegnata a raccontare il referendum da cui è poi nato il Sud Sudan. Era il mio secondo viaggio in quella zona e l’attualità mi appassionava, ma mi spezzava il cuore non poter raccontare le rivolte nel mio paese. Seguivo ossessivamente i notiziari.

Il 14 gennaio 2011 stavo lavorando a un pezzo sui giovani poeti sudanesi, quando ricevetti una telefonata. “Ben Ali se n’è andato! Ha lasciato la Tunisia”, mi urlava un collega all’altro capo del telefono. Non potevo crederci. Ero elettrizzata, ma anche preoccupata: cosa e chi avrebbe preso il posto del dittatore? Cosa sarebbe successo al paese?

Manifestanti baciano i soldati durante una protesta contro Ben Ali a Tunisi, il 20 gennaio 2011. (Martin Bureau, Afp)

Dovevo tornare a casa. Volevo esserci in un momento simile. Fortunatamente i miei capi lo capirono permettendomi di lasciare il Sudan prima del previsto. Arrivai in Tunisia tre giorni dopo la partenza di Ben Ali. Come molti miei compatrioti, ero tanto euforica quanto incredula.

La mia famiglia mi accolse all’aeroporto per andare direttamente in viale Bourguiba. Le strade erano quasi vuote, a esclusione dei soldati. Dopo oltre vent’anni vissuti in uno stato di polizia, la loro presenza adesso era quasi rassicurante e nessuno sapeva chi o cosa avrebbe sostituito Ben Ali. La giornata era soleggiata, l’aria era pungente e aleggiava un senso di libertà. Le persone in automobile salutavano i soldati in strada. Alcuni li ringraziavano.

Durante quei primi giorni sorridevo senza sosta. Era una gioia immensa vedere il mio paese superare la paura e trasformarsi in una rumorosa città-piazza dove tutti parlavano di politica, sotto ogni angolatura possibile, per tutta la giornata. In pubblico. Senza censura.

Dopo alcuni giorni, l’Afp mi chiese di restare un’altra settimana per raccontare quello che stava succedendo. Ero elettrizzata. Ho trascorso i giorni successivi, dal mattino fino al coprifuoco notturno, con migliaia di manifestanti accampati in piazza della Kasbah, di fronte alla sede del governo, che invocavano la fine del governo di transizione.

Durante questi sit-in ho capito che, a volte, il giornalismo è una questione di coincidenze.

Un giorno, in avenue Bab Bnet, mi sono accorta che alla mia destra si era riunita una piccola folla. Ho esitato prima di controllare di cosa si trattasse, perché i raduni di quel genere erano frequenti. Ma poi ho visto un veicolo con una targa militare, mi sono fatta largo nella folla e mi sono trovata accanto al capo di stato maggiore dell’esercito, Rachid Amar. All’epoca era amatissimo, date le voci (mai confermate) secondo cui si era rifiutato di sparare sui manifestanti. Non potevo credere ai miei occhi: Amar non aveva detto una parola in pubblico dopo la caduta di Ben Ali ed eccolo lì, vicinissimo me.

Ero molto nervosa (e se non fosse stato davvero lui e avessi pubblicato una dichiarazione falsa?), quindi ho fotografato il suo distintivo e ho chiesto a un ufficiale lì vicino: “È davvero lui? È davvero Rachid Ammar?”. L’ufficiale ha annuito.

Il capo di stato maggiore dell’esercito Rachid Ammar (a destra) durante l’apertura dell’assemblea costituente a Tunisi, 22 novembre 2011. (Fethi Belaid, Afp)

Dopo alcuni minuti Ammar ha cominciato a parlare e io ho cominciato a prendere appunti. Appena finito il suo discorso, mi sono allontanata per chiamare l’ufficio e raccontare la cosa. “Siamo fedeli alla costituzione del paese. Difenderemo la costituzione. Non travalicheremo i suoi confini”. Ero talmente presa dagli eventi, da accorgermi solo più tardi, la sera, dopo che un collega me lo fece notare, di avere fatto uno scoop.

Per quanto mi piacesse raccontare i cambiamenti del mio paese, non potevo rimanere lì per sempre. Nei quattro anni precedenti ero stata inviata in Egitto e anche da quelle parti stavano cominciando le proteste. Per cui ritornai al Cairo.

Era il 30 gennaio, il giorno prima la polizia aveva ucciso molte persone durante le proteste. Le strade erano quasi deserte. Gli edifici che ospitavano il quartier generale del partito del presidente Hosni Mubarak, non lontane da piazza Tahrir, erano in fumo, incendiati dai manifestanti.

Ero felicissima di essere di nuovo con i miei colleghi, soprattutto Jailan Zayan, la mia “sorella di un’altra madre”. L’ufficio era in fermento, con corrispondenti arrivati da tutto il mondo per raccontare quello che stava succedendo. Cominciarono settimane di lavoro senza sosta.

Passavamo buona parte delle nostre giornate e molte delle nostre notti tra l’ufficio e piazza Tahrir, l’epicentro della rivoluzione egiziana. Spesso dormivamo in un albergo vicino, per non dover rientrare a casa durante il coprifuoco.

Scene surreali emergevano dal caos e dall’incertezza che segnavano quei giorni.

Come quando alcuni sostenitori di Mubarak, a dorso di cavallo e di cammello, caricarono i manifestanti di piazza Tahrir.

Il senso dell’umorismo degli egiziani era straordinario e spesso ci sorprendevamo a ridere per gli slogan dei rivoluzionari. Erano riusciti a ironizzare anche sull’annuncio delle dimissioni di Mubarak, pronunciato dal suo temuto capo dell’intelligence, Omar Suleiman, spostando l’attenzione su un uomo che ascoltava il discorso con grande serietà. “L’uomo dietro Omar Suleiman” era poi diventata una figura così famosa, con tanto di pagina Facebook, che la famiglia aveva finito per chiedere alla gente di smetterla di prenderlo in giro.

Piazza Tahrir al Cairo, Egitto, il 1 febbraio 2011. (Mohammed Abed, Afp)

Il cuore della rivoluzione egiziana era sicuramente piazza Tahrir, simbolo di tutte le speranza che animavano le proteste. Ma Tahrir aveva anche un lato oscuro, le numerose aggressioni ai danni delle donne. Una sera mi trovavo lì a raccontare della presenza del leader dell’opposizione Mohamed el Baradei. Ero a meno di un metro da lui, quando ho sentito delle mani sul mio corpo, che cercavano di sfilarmi il maglione. La folla era così compatta che non sono riuscita a capire chi fosse il responsabile, ammesso che fosse solo uno. Ho dovuto urlare con tutte le mie forze e scappare. Si è trattato di uno dei tanti sgradevoli incidenti che io e le mie colleghe abbiamo dovuto affrontare mentre facevamo il nostro lavoro.

Nonostante le difficoltà eravamo tutti euforici, consapevoli di essere testimoni di un momento storico. Soprattutto io e Jailan: io ero una tunisina residente al Cairo, lei la figlia di un attivista dell’opposizione libica costretto all’esilio da Muammar Gheddafi. E così, quando la tempesta della primavera araba raggiunse la Libia, non fece che aumentare l’intensità dell’altalena di emozioni che stavamo vivendo negli ultimi mesi.

Tra il 2011 e il 2012 ho passato quasi quattro mesi in Libia.

La prima volta arrivai a Bengasi nel settembre 2011. Era un periodo magico. Tutto era straordinariamente chiaro e trasparente, il sogno di un giornalista. Un giorno ho partecipato alla riunione di alcuni ufficiali dell’esercito. Si sarebbe dovuta svolgere a porte chiuse ma uno di loro disse che potevo rimanere. Gli ufficiali hanno poi proclamato Khalifa Haftar capo dell’Esercito nazionale libico. Abbiamo intervistato Haftar alcune settimane dopo, in una località segreta di Tripoli. Siamo stati condotti lì senza conoscere la nostra destinazione. Mi sentivo in un film di spie.

A posteriori, si può dire che tutti i mali che avrebbero colpito il paese pochi mesi dopo, tutte le tensioni tra le varie milizie, erano già presenti in quei giorni esaltanti. Già temevamo che la transizione dal regime di Gheddafi alla democrazia sarebbe stata difficile, ma ci lasciavamo anche cullare dalle speranze dei libici i quali, per la prima volta dopo 42 anni di un’orribile dittatura, erano finalmente liberi di esprimersi.

L’esperienza in Libia mi ha segnato a lungo. Avevo un cd di canti rivoluzionari libici, che conoscevo a memoria e che facevo ascoltare all’infinito ai miei amici. Oggi fatico ad ascoltarli di nuovo: la musica che un tempo mi rinfrancava l’animo adesso mi lascia l’amaro in bocca.

Bengasi, Libia, 2 marzo 2011. (Roberto Schimdt, Afp)

Dopo la Libia, sono tornata in Egitto, ma il richiamo della Tunisia era troppo forte, e ci sono tornata nell’estate del 2013, prima per una vacanza e poi, dal 2014, come vice caporedattrice dell’ufficio dell’Afp a Tunisi. Felicità!

I primi mesi sono stati magici. Il semplice fatto di lavorare nel centro di Tunisi, un quartiere che ho sempre amato, mi riempiva di gioia. Mi godevo il fatto di lavorare nella mia lingua madre (l’arabo egiziano è piuttosto diverso dall’arabo tunisino). Amavo il fatto di poter entrare in contatto con chiunque, di poter scrivere di qualsiasi cosa, senza preoccuparmi della censura.

Ma presto anche la Tunisia ha dovuto fare i conti con la realtà. Già nel febbraio 2013 l’assassinio dell’attivista d’opposizione Chokri Belaid era stato un segnale preoccupante per tutto il paese. Poi, nel luglio dello stesso anno, la stessa cosa è accaduta a un parlamentare, Mohamed Brahmi.

Ho saputo della morte di Brahmi nel modo più inatteso. Insieme a un’amica stavamo uscendo da un negozio di viale Bourguiba, quando abbiamo sentito un urlo. Si trattava della vedova di Chokri Belaid, che si trovava a pochi metri da noi. Aveva appena saputo che Brahmi era stato ucciso nello stesso modo di suo marito: freddato di fronte a casa da alcuni uomini in motocicletta.

Due giorni dopo siamo andati al funerale di Brahmi. Come nel caso di Belaid, erano presenti molte donne, che rompevano con la tradizione islamica secondo cui solo gli uomini possono accompagnare il defunto alla sepoltura. Tornando dal funerale abbiamo assistito alla rottura di un altro tabù: era il mese del digiuno di Ramadan, ma faceva caldissimo e le persone si fermavano nei negozi per comprare bottiglie d’acqua e di succo di frutta bevendole in pubblico.

La Tunisia entrava in un periodo complicato, fatto di momenti d’immensa speranza, poi infranta da notizie come quella di un attivista dei diritti umani egiziano a cui era stato impedito di viaggiare, o come l’uccisione di due giornalisti tunisini in Libia.

Da un lato la Tunisia aveva organizzato, per la prima volta nella sua storia, elezioni libere e aperte. Dall’altro era scossa da sanguinosi attentati, come quello contro alcuni turisti a Sousse, nel luglio del 2015, o la decapitazione di un giovane pastore accusato di collaborare con le forze di sicurezza. Giovani che lottavano apertamente contro la brutalità della polizia, per la giustizia sociale e contro l’omofobia. Ma anche giovani che avevano perso la speranza di una vita migliore nel loro paese, e che in tanti casi erano annegati in mare mentre cercavano un futuro migliore in Europa. Una vera e propria girandola d’emozioni dalla quale mi devo ancora riprendere.

Ma il 14 gennaio 2018, durante una pausa di lavoro in un caffè di viale Bourguiba, ripensando a tutto questo, il mio ottimismo non era scomparso. Stavo per trasferirmi a lavorare negli Stati Uniti, e ho ripensato agli ultimi sette anni. E sì, il paese era ancora instabile. Sì, i mali che avevano scatenato la rivoluzione non era scomparsi: un manifestante era morto solo pochi giorni prima in circostanze poco chiare.

Poche cose mi irritano più che sentirmi dire di essere felice perché l’Egitto e la Libia sono in condizioni peggiori. Ma quando ho lasciato la Tunisia, ero in pace con me stessa e il mio cuore era pieno di speranza. Perché abbiamo ancora una possibilità. Nonostante tutto quello che è successo, abbiamo ancora una possibilità.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

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